Giobbe - Marc Chagal |
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LA FOTO DELLA SETTIMANA a cura di NICOLA D'ALESSIO
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219. GIOBBE di Roberto Rapaccini
“C'era
nella terra di Uz un uomo chiamato Giobbe: uomo integro e retto, temeva Dio ed
era alieno dal male. Gli erano nati
sette figli e tre figlie; possedeva settemila pecore e tremila cammelli,
cinquecento paia di buoi e cinquecento asine, e molto numerosa era la sua
servitù. Quest'uomo era il più grande fra tutti i figli d'Oriente…”. Così, con
un tono quasi fiabesco e sognante, inizia uno dei libri più complessi e
paradossali della Bibbia, il libro di Giobbe, personaggio particolarmente enigmatico
nell’intera tradizione religiosa e forse anche letteraria. Giobbe è l’uomo
giusto, tormentato da una serie di sventure. Riecheggia nella sua sorte
l’invidia degli dei per gli umani temuta dai Greci. A nome di tutte le vittime
della sofferenza impreca contro Dio per un dolore che gli appare ingiusto ed
incomprensibile; prostrato dal male, mortificato da tutto e da tutti, non perde
mai la sua dignità, ma cerca una giustificazione alla sua sofferenza in grado
di restituirgli la libertà violata. Giobbe non appartiene al popolo di Dio, è
un uomo qualunque; così maggiormente è simbolo
di tutta l’umanità, è un’icona in cui ogni uomo ed ogni donna possono
riconoscersi nei passaggi più difficili della propria esistenza. Giobbe,
baciato dalla grazia o, con termine laico, dalla buona sorte, è oggetto di una
scommessa fra Dio e Satana. È consapevole di una malcelata predilezione di Dio
per lui, cui fa riscontro la sua assoluta fedeltà. Satana con sinistra invidia
insinua nei pensieri di Dio il sospetto che la devozione di Giobbe sia un
corollario della sua buona sorte. Lasciandosi tentare, Dio dà il permesso a
Satana di rovinare la vita di Giobbe, attaccandolo prima nei suoi averi, poi nei
suoi affetti più cari, ed infine nella sua salute. Una progressione di
disgrazie senza fine, nel corso delle quali tuttavia Giobbe all’inizio sopporta
in silenzio. Questo destino è una conseguenza della sua capacità di sostenere
la malasorte o è un prodotto del puro caso? “Io non terrò chiusa la mia bocca”
dice Giobbe e, di fronte alla sventura, arriva a maledire il giorno in cui è
nato. Tre amici,appresa la sua sorte, lo vanno a trovare; sospettano che egli stia
male come esito di qualche colpa commessa. Lo consolano, ma in realtà consolano loro stessi. Se loro stanno bene significa che non hanno colpe o hanno colpe
minori. Pensano: “Dio è giusto e se Giobbe sta male deve essersi macchiato di
qualcosa di grave”. A causa di questo atteggiamento, ‘troppo umano’ come direbbe
Nietsche, non è raro che alla disgrazia si accompagnino la vergogna e un senso
di colpa per quanto accaduto. Il ragionamento degli amici di Giobbe è solo
frutto della presunzione dell’uomo mediocre di fronte al mistero delle vicende
umane, il tentativo di menti modeste di giustificare ogni cosa ignorando i
confini del conoscibile. Una simile congettura peraltro non trova riscontro
nella realtà: quanti giusti soffrono e quanti corrotti sono felici. Non è tuttavia
nemmeno una prova della casualità delle contingenze umane: è semplicemente un segno della nostra indigenza cognitiva. La
sorte precipita l’anima di Giobbe in un deserto, nel quale la fede provata dagli
eventi gli farà dire che Dio ha ragione, ma lui non ha torto. Sente che la
sofferenza non è un fine, ma parte di una progressione dell’esistenza, che può renderci migliori o peggiori, ma non ci
lascia mai uguali a prima. Il dolore è
parte dell’economia della vita, che ha bisogno perfino della morte per
perpetuarsi. Tutto è un mistero profondo, nel quale l’essere si perde in un
flusso più grande, dove ogni vuoto è fatto per contenere un bene maggiore. “Io grido a Te, ma Tu non mi rispondi, insisto, ma Tu non mi dai retta. Tu
sei un duro avversario verso di me e con la forza delle Tue mani mi perseguiti;
mi sollevi e mi poni a cavallo del vento e mi fai sballottare dalla bufera….” È
un grido che non trova risposta. La moglie, correlato fisico di un parte della
sua anima, lo spingerebbe a maledire Dio, ma Giobbe si trattiene, perché questa
reazione lo separerebbe dalla fonte della vita, lo condannerebbe ad una
solitudine che è l’obiettivo che Satana ha covato già da quando ha provocato la
cacciata dell’uomo dai giardini dell’Eden. Isolarsi da Dio equivale ad
allontanarsi da sé e dagli altri. Sarebbe la fine di ogni speranza. E Giobbe,
anche se collocando quel rapporto nell’ambito della logica umana si senta
tradito, dice: “…Per la vita di Dio, che mi ha privato del mio diritto, per l'Onnipotente
che mi ha amareggiato l'animo, finché ci sarà
in me un soffio di vita, e l'alito di Dio nelle mie narici, mai le mie labbra
diranno falsità e la mia lingua mai pronunzierà menzogna! Lungi da me che io
mai vi dia ragione; fino alla morte non rinunzierò alla mia integrità. Mi terrò
saldo nella mia giustizia senza cedere, la mia coscienza non mi rimprovera
nessuno dei miei giorni.” Così quello che accade diviene l’occasione per
testimoniare fino in fondo di fronte a Dio il proprio essere, la dignità della
propria umanità. Giobbe resiste alla
tentazione di proclamarsi vittima, mentre Dio, con il suo silenzio e la sua
assenza – nella malasorte spesso ci si chiede dove sia Dio - dà un segno della Sua fiducia, concedendogli
uno spazio nel quale determinarsi senza interferenze. Nel film ‘The tree of
life si dice che ci sono due vie per
affrontare la vita: la via della natura e la via della grazia. I protagonisti del
film, dopo la morte del figlio, sono di fronte a questa scelta. Così avviene
nella sofferenza: la via della natura
porta ad una disperata ed angosciosa solitudine, mentre quella della grazia reca
il conforto della fede. Giobbe poi si imbatte in Eliu, che elogia la sapienza
divina rendendo ancor più esplicita la tesi dei tre amici di Giobbe. Non ha senso lagnarsi, perché, anche se la disciplina è dolorosa, l’ordine impone ad ognuno di sottomettersi
umilmente alle leggi di Dio. San Paolo sintetizza questo principio nella lettera
ai Filippesi: “Per me vivere è Cristo e morire un guadagno”. Non c’è nulla di sbagliato nelle tesi di Eliu, nelle quali tuttavia sembra
non esserci posto per la caritas.
Eliu, convinto di essere giusto, sembra rappresentare
l’antica tradizione cristiana, che,
preoccupata principalmente di salvaguardare la propria coerenza,
privilegia un’etica fondata legalisticamente sul mero dovere. Ma di fronte ad
un morale così formale profuma di un’umanità più autentica la bestemmia del
disperato. Finalmente Giobbe si troverà al cospetto di Dio. Il Signore, anziché
fornire una risposta, gli rivolge una domanda ovvero gli chiede dov’era al
momento della creazione. Lo fa elencando le specifiche meraviglie del creato.
Giobbe comprende, e sul suo volto compare un sorriso. L’amore dell’uomo si manifesta attraverso la rinuncia
alla pretesa centralità ed esclusività di un rapporto con Dio. L’uomo deve
accettare di essere una semplice creatura.
In questa prospettiva il dolore e la sofferenza acquistano un valore
relativo. Rinunciare a sé stessi significa perdere ogni cosa, creare un vuoto
per disporsi ad accedere ad una dimensione superiore. Dio compenserà Giobbe
ricostruendo la sua vita, dandogli altri figli. Ma quello che è avvenuto, in
particolare la perdita alcuni figli, non può essere cancellato. Il dolore e la
sofferenza sono incompatibili con una restituito
ad integrum. C’è però un dato positivo: la sofferenza ammaestra, conferisce
una nuova consapevolezza, quella che colloca la realtà umana, in un nuovo
contesto, quello ultraterreno. ROBERTO
RAPACCINI
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WEBMASTER: Roberto RAPACCINI
A chi può procedere malgrado gli enigmi, si apre una via. Sottomettiti agli enigmi e a ciò che è assolutamente incomprensibile. Ci sono ponti da capogiro, sospesi su abissi di perenne profondità. Ma tu segui gli enigmi.
(Carl Gustav Jung)
2 commenti:
Non avere la prospettiva dell'eternità, fa assolutizzare ciò che si ha e si fa nella vita quotidiana.
Quando siamo depressi pensiamo che la vita faccia tutta schifo; quando c'è qualcosa che ci riesce diventiamo esageratamente euforici.
In entrambi i casi siamo degli sciocchi.
Giobbe sa che uno solo è assoluto: Dio.
Rob SKY
La fede o la si ha o no. Sono piu' vicino al pensiero orientale, e nello specifico al pensiero Taoista. Molto diffic
ile da perseguire per una mente occidentale. Leggo pratico rifletto è quello che riesco a ottenere fino a ora.
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