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LA FOTO DELLA SETTIMANA a cura di NICOLA D'ALESSIO
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230. RECENSIONI ALBUM ISRAELIANI di Sky Robertace Latini
“FORTE”
HaYehudim (da Israele) – 2007
Questi israeliani non sembrano fare giri
di parole con il loro moniker: esso si traduce semplicemente in “Giudei”.
Suonano un Metal sporco di Hard Rock che risente del Grunge dei Nirvana e dei
Soundgarden, a cui si aggiunge un certo goticismo di sottofondo. La band è stata formata dal
chitarrista-solista/cantante Tom Petrover e dalla chitarrista-ritmica/cantante
Orit Shachaf, i quali successivamente si sono sposati, ed ora sono uniti anche
nella vita privata. In tutto i membri sono sette. Quattro album: il primo nel 1995 (“Metziut
nifredet”), poi nel ’98, nel 2002 e questo nel 2007. Cantano sia in inglese che
in ebraico. “DON’T LIKE” si basa tra il
gioco ritmico e la voce maschile cupa e malinconica che lascia il posto alla
femminile incattivita e rabbiosa nel ritornello. Non c’è evoluzione della linea
melodica e nemmeno assoli, che tutto si basa su queste due contrapposizioni, la
variabilità sta nel momento centrale quasi Nu Metal. Lo stile ondeggia fra il
gothic e il crossover. “EIN LAH MAKOM”
inizia morbida e suadente con una atmosfera di tristezza infinita. Tutto è
basato sulla voce maschile che è fluida e potente; il valore del cantato non
sta tanto nella linea vocale ma nella forza interpretativa. Un rock abbastanza
gotico che fa il paio con la prima traccia per carattere e idea. L’assolo non
vive da solo, ma accompagnato al cantato. E’ talmente monolitica che appare più
corta di quello che è (6 minuti). “KAHA
ANI” fa un po’ rock e meno metal, con un senso intimista ma corposo che la voce
femminile srotola passionale evidenziando le proprie potenzialità. Belli i due
assoli di chitarra sostenuti da un bel groove su un tempo medio. “SOMEBODY ELSE” ha poco a che vedere con il
resto del disco; è fuori contesto ma rende l’idea di come la band non sia
legata ad una unica ispirazione. Lo stile è fortemente Kate Bush, quel poprock
particolare dai toni brillanti in cui la cantante è diversa da come appare
negli altri pezzi presenti in questo lavoro. Assolo chitarristico frizzante. “LINHYOT”
è una soft song molto lenta. La voce maschile e la femminile si alternano alla
pari anche associandosi. Bella, d’atmosfera e accattivante. Quasi prog
nell’assolo che comunque ricorda la vecchia scuola anni ’70. “LEARNING” è
parzialmente orientaleggiante, un po’ Led Zeppelin e un po’ Progressive, ma è
un groove metal goticheggiante e acido, tipico ormai nel panorama
internazionale. Forte presenza della voce che qui fa grande uso di vocalizzi e
gorgheggi. “WHAT ABOUT YOU ?” fa un
ulteriore cambio di stile. Ci presenta una magica atmosfera alla islandese Bjork. Un brano dolce e liricamente non
rassicurante, che infatti termina molto poco dolcemente, quando entra la
chitarra distorta e la voce si alza di tono con forte impatto emotivo. La musica è fondamentalmente occidentale, a
rendere l’oriente è la lingua ebraica, che quando anche è soft, con le sue
aspirazioni indurisce la percezione. In realtà l’oriente c’è, si trova nelle
sfumature di uno stile mai estroverso, ma piuttosto introspettivo, che dà
quindi l’idea di non essere rock da saltellare, ma musica che fa intendere un
miscuglio sfaccettato di odori e sapori. Però non è un lavoro di insieme E’ un
album che colpisce dopo vari ascolti; sound serio. Talvolta la voce maschile suona alla Ligabue
o Litfiba , ma la somiglianza a più a che fare con i toni carichi che con la bellezza e la
capacità canora, che Petrover è
certamente ad un livello superiore. Non ci sono 4/4 netti e lineari, ma
ritmiche complesse e dinamiche. Molte
delle loro canzoni sono accusate di avere un tenore ideologico e politico,
anche se talvolta i testi paiono ambigui e di difficile interpretazione. Il
titolo del disco si rifà al termine nel senso internazionale che ha in
musicologia. Sky Robertace Latini
***
THE
NEVER ENDING WAY OF ORWARRIOR” Orphaned
Land (da Israele) – 2010
Un album molto interessante da ascoltare
interamente come un viaggio da intraprendere. “SAPARI” parte subito dicendo,
non siamo occidentali. Comunque la voce iniziale ricorda la canzone di Bennato
“Li belli gladioli” dall’album “Uffà uffà” del 1980. L’oriente presente in
questo brano non evita loro di usare la ritmica della chitarra distorta in modo
molto classico nell’Heavy Metal. Voci femminile e maschile si imbrigliano
sapientemente in modo corale lasciando trasparire un senso di folclore etnico
di gruppo. “THE PATH Part.1-TREADING
THROUGH DARKNESS” è un brano diviso in
due, la prima parte di quasi sette minuti e mezzo(questa) è molto intensa, la
seconda (“The Pilgrimage”) cala di tono anche se appare più dura (rimanendo
soddisfacente). Questa prima parte è fluidamente Progressive e, accanto a
cadenze orientali, mette voce maschile tenuemente scream. Inizialmente è molto
soft, con un cantato maschile soave sotto cui si sentono tastiere leggere, poi
l’oriente morbido che passa ad una quasi sinfonica progressione metal. Il
brano, mai pesante, è gentilmete elegante ma di polso. “OLAT HA’TAMID” fa
tornare prepotentemente i suoni orientaleggianti, ma ricorda anche i Jethro
Tull. Gli strumenti elettrici non sono preponderanti anche se riempiono gli
spazi ovunque, lasciando però a
strumentazione più tradizionale e ai cori il primo piano. Brano breve ma
incisivo. “THE WARRIOR” è il brano che
nel disco si lascia andare ad un certo sinfonismo ed ad una epicità di fondo,
senza essere veloce o violento. Le tastiere sono l’elemento principale ma la
chitarra offre un assolo liquido piuttosto interessante. “DISCIPLES OF THE SACRED OATH” è tipicamente
Progressive senza grandi originalità, eppure è un pezzo personale e ricco. La
cattiveria si esprime attraverso un growl che viene seguito da un cantare scuro
ma pulito. Il cantato pulito chiaro è comunque il principale. Dopo il terzo
minuto si riaffaccia l’oriente, ma non è il momento più importante, e da qui in
poi si percepisce un che di Iron Maiden.
“NEW JERUSALEM” è una piccola perla, e qui ritorna forte il medio
oriente. L’acustica ci parla di quelle zone, ma la distorsione non si fa
attendere sebbene sia ben incastonata senza fuoriuscire dai suoi limiti. La
splendida e soave voce femminile è perfettamente modulata, mentre la seconda
parte della strofa è affidata a quella maschile che scivola tra l’arrangiamento
donandogli forza per il titolo che non è un vero e proprio ritornello. Si
tratta di una composizione dolce che fa pensare alla luce, nonostante il testo
parli di guerra. La parte finale suona acusticamente e usa anche percussioni. Le sonorità orientaleggianti sono molto
comuni nel metal, quindi da un certo punto di vista niente di nuovo, ma dobbiamo
renderci conto che stiamo patrlando di una band del medio oriente, che quindi
il sound orientale lo padroneggia diversamente. In effetti questa appartenenza
viene continuamente espressa senza abbandonarsi ad eccessi folcloristici od
etnici. Come la maggior parte dei gruppi Progressive, vari pezzi sono lunghi
(“Disciples of the sacred oath” è il più lungo e dura 8 minuti e mezzo). I brani sono quindici e vanno ascoltati tutti
in ordine secondo la numerazione dall’inizio alla fine senza soluzione di
continuità come un lungo viaggio; anche i brani minori acquistano valore
nell’insieme. E’ ammaliante e estrania dalla realtà, ricercando atmosfere
rarefatte e di ampio respiro. Non si tratta di un ascolto facile, cerca
infatti, senza essere sperimentale, cioè rimanendo nella strutturazione ormai
acquisita in questo campo, di regalare emozioni durature e non godimenti
immediati che poi si perdono. Secondo la
band: “l’album si basa sul concetto della forza interiore di ognuno, chiunque
può diventare il guerriero della luce. Noi siamo responsabili del mondo e
dobbiamo svegliare questo guerriero”. Sky Robertace Latini
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