Voglio raccontare l’iniziativa intrapresa a Terni da Terni Donne (Per info: www.ternidonne.com e ternidonne@gmail.com oppure su Facebook al nickname Terni donne) il 26 novembre 2011 dal titolo “Apri gli occhi!” La performance è consistita in una messa in scena della liberazione delle donne vittime di violenza dalla gabbia di indifferenza e debolezza che le imprigiona. Queste donne sono state impersonate da alcune attrici (donne facenti parte di Terni Donne) vestite di bianco mentre cittadini qualunque, che hanno ovviamente aderito all’iniziativa, uomini e donne “normali”, hanno impersonato l’indifferenza. Il tutto si è svolto nel seguente modo: alle 17.00 i partecipanti hanno raggiunto Piazza della Repubblica indossando una maschera neutra di colore bianco e degli abiti di color nero e hanno iniziato a camminare in tutta la piazza e in Corso Tacito fino alle 17.15. Qualcuno ha indossato la maschera dal momento in cui è uscito di casa o è sceso dall’auto, dalla bicicletta o dall’autobus, arrivando da tutte le vie che confluivano su Piazza della Repubblica. E’ stata scelta la maschera neutra come simbolo dell’indifferenza. Alle 17:15 si è formato un semicerchio di persone con la maschera che davano le spalle ai confini della piazza e con il volto rivolto al centro della piazza stessa. Mentre si formava il semicerchio è stato diffuso l’audio di un testo inerente la tematica dell’indifferenza e sono uscite dalla Biblioteca comunale delle donne vestite di bianco che hanno effettuato una performance atta a comunicare il disagio delle vittime di violenza dovuto all’indifferenza di coloro che le circondano, della società, di chi vuol far finta di nulla. Mentre le attrici erano in azione è stata diffusa la lettura di un testo sulla violenza di genere. Ad un certo punto una donna bianca si è diretta verso uno degli indifferenti e gli ha tolto la maschera, da quel momento in poi è iniziato il processo simbolico della consapevolezza degli indifferenti che piano piano si sono tolti le proprie maschere semplicemente sollevandole sopra la testa e lasciando scoperto il viso. Una volta tolte tutte le maschere, le donne bianche sono state accolte ed incluse nel semicerchio degli ex-indifferenti ormai senza maschera. A questo punto è stata diffusa una canzone al termine della quale tutti/e hanno distribuito un volantino predisposto da Terni Donne spostandosi in ogni direzione. L’iniziativa ha riscosso successo con la partecipazione attiva di una settantina di uomini e donne e la presenza di molti cittadini che si sono fermati ai lati della Piazza per assistere alla performance. Riporto uno dei testi letti durante l’iniziativa: “Barbablù sposava le ragazze e le uccideva, poi nascondeva i loro corpi in cantina. Perché lo facesse la storia non lo spiega: non per gelosia, non per rabbia, non per denaro era ricco e viveva in un castello. Solo le uccideva.” “Rosa, come "una spina che gli toglierà la vita". Anche Rosa usa la chiave, apre la porta, getta lo sguardo. Però Rosa, la più piccola delle tre, ha l'anima, il cuore e la mente più grandi. Guarda, non trema. "Non un urlo, ma gli occhi ora sono più grandi." Teste. Braccia. Seni. Gambe. Le sue sorelle fatte a pezzi. Lei le rimette insieme, silenziosa. Le nasconde. Poi ordisce un piano. Inganna l'orco. Si traveste, va via sotto i suoi occhi senza che lui la riconosca. Vince lei. Vince perché ha saputo guardare nel fondo del pozzo dell'orrore e rimanere ferma. Vince chi sa aprire la porta e guardare "con occhi più grandi". Non chi rifiuta di vedere, non chi per paura o per soggezione non apre neppure, non vuol sapere né sentire. Vince chi apre, chi guarda, chi resta fermo e guarda meglio, poi richiude, torna su per le scale. Vince chi va all'inferno e ritorna. Vince chi vuol sapere e poi sa cosa farsene, anche, del suo nuovo sapere.” I due brevi brani sopra riportati sono tratti da “Malamore. Esercizi di resistenza al dolore” di Concita De Gregorio. La scrittrice e giornalista indaga nella quotidianità del mondo femminile, sul rapporto con gli uomini e la violenza. E se - scrive Concita De Gregorio - il dolore delle donne è “un compagno di vita, un nemico tanto familiare da esser quasi amico”, occorre allora trasformarlo in forza. Riporto una parte dell’introduzione di Concita De Gregorio: “Le donne provano la temperatura del ferro da stiro toccandolo. Brucia ma non si bruciano. Respirano forte quando l’ostetrica dice «non urli, non è mica la prima». Imparano a cantare piangendo, a suonare con un braccio che pesa come un macigno per la malattia, a sciare con le ossa rotte. Portano i figli in braccio per giorni in certe traversate del deserto, dei mari sui barconi, della città ai piedi su e giù per gli autobus. Le donne hanno più confidenza col dolore. Del corpo, dell’anima. È un compagno di vita, è un nemico tanto familiare da esser quasi amico, è una cosa che c’è e non c’è molto da discutere. Ci si vive, è normale. Strillare, disperde le energie, lamentarsi non serve. Trasformandolo, invece: ecco cosa serve. Trasformare il dolore in forza. Ignorarlo, domarlo, metterlo da qualche parte perché lasci fiorire qualcosa. È una lezione antica, una sapienza muta e segreta: ciascuna lo sa. Maria Malibran, leggendario mezzosoprano, che impara a nascondere le lacrime durante le terribili lezioni di canto inflitte dal padre. Jaqueline du Pré che suona come un angelo il violoncello e sorride a ogni fitta alle ossa del braccio malato, il braccio che finirà per ucciderla. Denise Karbon che scia ingessata, Vanessa Ferrari che volteggia con una frattura al piede. La prostituta bambina che chiude gli occhi e pensa al prato della sua casa nei campi. La giovane donna che si lascia insultare e picchiare dal suo uomo perché pensa che quella sua violenza sia una debolezza: pensa di capirne le ragioni, di poterle governare, alla fine. Pensa che lui sia fragile quando strilla e quando alza le mani: si calmerà, basterà lasciargli il tempo, si placherà. La compagna del genio, la donna di Picasso che, lei sola, ne conosce e ne tollera le miserie: in questo più forte e più grande di lui. L’artista straordinaria che si lascia soggiogare in una vita ordinaria e la trasforma in poesia, la donna ordinaria che fa dei suoi giorni un capolavoro di pazienza. Le migliaia, milioni di donne che vivono ogni giorno sul crinale di un baratro e che anziché sottrarsi quando possono, quelle che possono, ci passeggiano in equilibrio: un numero da circo straordinario, questo di tentare di addomesticare la violenza la violenza degli uomini qualche volta andando a cercarla, persino. Perché è un antidoto, perché è un prezzo, perché non si può fare diversamente, perché il tempo che viviamo è questo e chiede uno sforzo d’ingegno per conciliare la propria autonomia con l’altrui brutaleinsofferenza. Le storie che ho raccolto sono scie luminose, stelle cadenti che illuminano a volte molto da lontano una grande domanda: cosa ci induce a non respingere, anzi a convivere con la violenza? Perché sopporta chi sopporta, e come fa? Quanto è alta la posta in palio? Alcune soccombono, molte muoiono, moltissime dividono l’esistenza con una privata indicibile quotidiana penitenza. Alcune ce la fanno, qualche altra trova nell’accettazione del male le risorse per dire, per fare quel che altrimenti non avrebbe potuto. Grandissimi talenti sono sbocciati da uno sfregio. Altrettanto grandi sono stati spenti. Per mille che non hanno nome, una cambia il corso della storia. Sono, alla fine, gesti ordinari. Chiunque può capirlo misurandolo su di sé. Sono esercizi di resistenza al dolore. «Le femmine servono ai cuccioli» dice il bambino seduto davanti alla tv, danno un documentario sugli animali. Poi ripete: «Lo sai mamma? Le femmine servono perché devono fare i cuccioli, i maschi da soli non li possono fare». Non c’è dubbio, i maschi da soli non possono. Però le femmine non «servono» solo a fare i cuccioli, penso di rispondere. Non dico niente, invece. Ci sono cose che non si spiegano con le parole. Lo capirà, lo vedrà, lo imparerà strada facendo. Certo, bisogna sempre ricominciare da capo. A ogni generazione di nuovo. Dimostrare, convincere. A cosa servono le femmine? Sembra proprio, nelle parole di un bambino, l’origine di tutte le questioni. Non sono sicura che a fare la stessa domanda a cento adulti, uomini e donne, si otterrebbero risposte convincenti. «Servono a far più bella la vita» mi ha risposto un amico credendo di dire cosa gradita, immagino sentendosi galante. Deve essere qui il cuore di tutto. Siamo proprio certi che le femmine servano a qualcos’altro che a fare i cuccioli, a rendere piacevole l’esistenza altrui? E loro, le donne, dietro le parole e i gesti di una sicurezza ogni giorno esibita in pubblico ne sono davvero convinte in privato? Cosa sono disposte a offrire a sopportare in cambio della possibilità di dimostrare che no, non servono solo a fare i cuccioli né ad allietare con la loro deliziosa presenza le impegnative vite altrui? Ma soprattutto, perché in fondo sentono, anche quando non lo dicono, di doverlo dimostrare? Vorrei poter dire che se devi uscire alle cinque per un impegno improrogabile e alle cinque meno dieci la persona con cui dividi l’esistenza ti pone una questione epocale da cui dipende l’esito della tua giornata, della settimana e della vita, ecco, quella è una prova di forza, una forma sottile di violenza che si esercita nel celebre quesito: dimostrami che cosa è più importante per te. Perché si sa che l’amore viene prima di tutto, per le donne è certamente così. Perché se hai interessi fuori, più importante deve essere sempre, tuttavia, l’interesse dentro. Perché se un uomo può dire scusami ma ho da fare, e dimenticarsi l’anniversario, la spesa, la festa di compleanno del bambino, la consegna a domicilio, una donna no, non può farlo. O meglio: può, ma paga un prezzo.” CHIARA PASSARELLA
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LA FOTO DELLA SETTIMANA a cura di NICOLA D'ALESSIO
Questo blog non ha finalità commerciali. I video, le immagini e i contenuti sono in alcuni casi tratti dalla Rete e pertanto sono presuntivamente ritenuti pubblici, pur restando di proprietà del rispettivo autore. In ogni caso, se qualcuno ritenesse violato un proprio diritto, è pregato di segnalarlo a questo indirizzo : rapacro@virgilio.it Si provvederà all’immediata rimozione del contenuto in questione. RR
121. IL 25 NOVEMBRE, “APRI GLI OCCHI” E CONCITA DE GREGORIO di Chiara Passarella
Il 25 novembre si è celebrata la giornata mondiale per l'eliminazione della violenza sulle donne. Certamente non basta un giorno per ricordare le 129 donne finora uccise dall'inizio di quest'anno in Italia, però si può usare questa giornata per far luce su questa realtà. Quello che è importante ricordare oggi è che serve eliminare la violenza sulle donne e che va fatto partendo da un lavoro continuo e costante, che certamente non finirà con la giornata del 25 novembre. La violenza sulle donne, troppo spesso non riconosciuta, troppo spesso sottovalutata, è in realtà uno dei fenomeni principali nel nostro Paese. In realtà la violenza sulle donne, è bene ricordare, avviene soprattutto negli ambienti domestici da parte di conoscenti e famigliari, e questa non è altro che la conseguenza di una visione globale del genere femminile per cui credo che ci sia ancora tanto da dire, diffondere, approfondire, lottare, studiare, informare. Segnalo, a questo proposito, il seguente link:
http://www.zeroviolenzadonne.it
Voglio raccontare l’iniziativa intrapresa a Terni da Terni Donne (Per info: www.ternidonne.com e ternidonne@gmail.com oppure su Facebook al nickname Terni donne) il 26 novembre 2011 dal titolo “Apri gli occhi!” La performance è consistita in una messa in scena della liberazione delle donne vittime di violenza dalla gabbia di indifferenza e debolezza che le imprigiona. Queste donne sono state impersonate da alcune attrici (donne facenti parte di Terni Donne) vestite di bianco mentre cittadini qualunque, che hanno ovviamente aderito all’iniziativa, uomini e donne “normali”, hanno impersonato l’indifferenza. Il tutto si è svolto nel seguente modo: alle 17.00 i partecipanti hanno raggiunto Piazza della Repubblica indossando una maschera neutra di colore bianco e degli abiti di color nero e hanno iniziato a camminare in tutta la piazza e in Corso Tacito fino alle 17.15. Qualcuno ha indossato la maschera dal momento in cui è uscito di casa o è sceso dall’auto, dalla bicicletta o dall’autobus, arrivando da tutte le vie che confluivano su Piazza della Repubblica. E’ stata scelta la maschera neutra come simbolo dell’indifferenza. Alle 17:15 si è formato un semicerchio di persone con la maschera che davano le spalle ai confini della piazza e con il volto rivolto al centro della piazza stessa. Mentre si formava il semicerchio è stato diffuso l’audio di un testo inerente la tematica dell’indifferenza e sono uscite dalla Biblioteca comunale delle donne vestite di bianco che hanno effettuato una performance atta a comunicare il disagio delle vittime di violenza dovuto all’indifferenza di coloro che le circondano, della società, di chi vuol far finta di nulla. Mentre le attrici erano in azione è stata diffusa la lettura di un testo sulla violenza di genere. Ad un certo punto una donna bianca si è diretta verso uno degli indifferenti e gli ha tolto la maschera, da quel momento in poi è iniziato il processo simbolico della consapevolezza degli indifferenti che piano piano si sono tolti le proprie maschere semplicemente sollevandole sopra la testa e lasciando scoperto il viso. Una volta tolte tutte le maschere, le donne bianche sono state accolte ed incluse nel semicerchio degli ex-indifferenti ormai senza maschera. A questo punto è stata diffusa una canzone al termine della quale tutti/e hanno distribuito un volantino predisposto da Terni Donne spostandosi in ogni direzione. L’iniziativa ha riscosso successo con la partecipazione attiva di una settantina di uomini e donne e la presenza di molti cittadini che si sono fermati ai lati della Piazza per assistere alla performance. Riporto uno dei testi letti durante l’iniziativa: “Barbablù sposava le ragazze e le uccideva, poi nascondeva i loro corpi in cantina. Perché lo facesse la storia non lo spiega: non per gelosia, non per rabbia, non per denaro era ricco e viveva in un castello. Solo le uccideva.” “Rosa, come "una spina che gli toglierà la vita". Anche Rosa usa la chiave, apre la porta, getta lo sguardo. Però Rosa, la più piccola delle tre, ha l'anima, il cuore e la mente più grandi. Guarda, non trema. "Non un urlo, ma gli occhi ora sono più grandi." Teste. Braccia. Seni. Gambe. Le sue sorelle fatte a pezzi. Lei le rimette insieme, silenziosa. Le nasconde. Poi ordisce un piano. Inganna l'orco. Si traveste, va via sotto i suoi occhi senza che lui la riconosca. Vince lei. Vince perché ha saputo guardare nel fondo del pozzo dell'orrore e rimanere ferma. Vince chi sa aprire la porta e guardare "con occhi più grandi". Non chi rifiuta di vedere, non chi per paura o per soggezione non apre neppure, non vuol sapere né sentire. Vince chi apre, chi guarda, chi resta fermo e guarda meglio, poi richiude, torna su per le scale. Vince chi va all'inferno e ritorna. Vince chi vuol sapere e poi sa cosa farsene, anche, del suo nuovo sapere.” I due brevi brani sopra riportati sono tratti da “Malamore. Esercizi di resistenza al dolore” di Concita De Gregorio. La scrittrice e giornalista indaga nella quotidianità del mondo femminile, sul rapporto con gli uomini e la violenza. E se - scrive Concita De Gregorio - il dolore delle donne è “un compagno di vita, un nemico tanto familiare da esser quasi amico”, occorre allora trasformarlo in forza. Riporto una parte dell’introduzione di Concita De Gregorio: “Le donne provano la temperatura del ferro da stiro toccandolo. Brucia ma non si bruciano. Respirano forte quando l’ostetrica dice «non urli, non è mica la prima». Imparano a cantare piangendo, a suonare con un braccio che pesa come un macigno per la malattia, a sciare con le ossa rotte. Portano i figli in braccio per giorni in certe traversate del deserto, dei mari sui barconi, della città ai piedi su e giù per gli autobus. Le donne hanno più confidenza col dolore. Del corpo, dell’anima. È un compagno di vita, è un nemico tanto familiare da esser quasi amico, è una cosa che c’è e non c’è molto da discutere. Ci si vive, è normale. Strillare, disperde le energie, lamentarsi non serve. Trasformandolo, invece: ecco cosa serve. Trasformare il dolore in forza. Ignorarlo, domarlo, metterlo da qualche parte perché lasci fiorire qualcosa. È una lezione antica, una sapienza muta e segreta: ciascuna lo sa. Maria Malibran, leggendario mezzosoprano, che impara a nascondere le lacrime durante le terribili lezioni di canto inflitte dal padre. Jaqueline du Pré che suona come un angelo il violoncello e sorride a ogni fitta alle ossa del braccio malato, il braccio che finirà per ucciderla. Denise Karbon che scia ingessata, Vanessa Ferrari che volteggia con una frattura al piede. La prostituta bambina che chiude gli occhi e pensa al prato della sua casa nei campi. La giovane donna che si lascia insultare e picchiare dal suo uomo perché pensa che quella sua violenza sia una debolezza: pensa di capirne le ragioni, di poterle governare, alla fine. Pensa che lui sia fragile quando strilla e quando alza le mani: si calmerà, basterà lasciargli il tempo, si placherà. La compagna del genio, la donna di Picasso che, lei sola, ne conosce e ne tollera le miserie: in questo più forte e più grande di lui. L’artista straordinaria che si lascia soggiogare in una vita ordinaria e la trasforma in poesia, la donna ordinaria che fa dei suoi giorni un capolavoro di pazienza. Le migliaia, milioni di donne che vivono ogni giorno sul crinale di un baratro e che anziché sottrarsi quando possono, quelle che possono, ci passeggiano in equilibrio: un numero da circo straordinario, questo di tentare di addomesticare la violenza la violenza degli uomini qualche volta andando a cercarla, persino. Perché è un antidoto, perché è un prezzo, perché non si può fare diversamente, perché il tempo che viviamo è questo e chiede uno sforzo d’ingegno per conciliare la propria autonomia con l’altrui brutaleinsofferenza. Le storie che ho raccolto sono scie luminose, stelle cadenti che illuminano a volte molto da lontano una grande domanda: cosa ci induce a non respingere, anzi a convivere con la violenza? Perché sopporta chi sopporta, e come fa? Quanto è alta la posta in palio? Alcune soccombono, molte muoiono, moltissime dividono l’esistenza con una privata indicibile quotidiana penitenza. Alcune ce la fanno, qualche altra trova nell’accettazione del male le risorse per dire, per fare quel che altrimenti non avrebbe potuto. Grandissimi talenti sono sbocciati da uno sfregio. Altrettanto grandi sono stati spenti. Per mille che non hanno nome, una cambia il corso della storia. Sono, alla fine, gesti ordinari. Chiunque può capirlo misurandolo su di sé. Sono esercizi di resistenza al dolore. «Le femmine servono ai cuccioli» dice il bambino seduto davanti alla tv, danno un documentario sugli animali. Poi ripete: «Lo sai mamma? Le femmine servono perché devono fare i cuccioli, i maschi da soli non li possono fare». Non c’è dubbio, i maschi da soli non possono. Però le femmine non «servono» solo a fare i cuccioli, penso di rispondere. Non dico niente, invece. Ci sono cose che non si spiegano con le parole. Lo capirà, lo vedrà, lo imparerà strada facendo. Certo, bisogna sempre ricominciare da capo. A ogni generazione di nuovo. Dimostrare, convincere. A cosa servono le femmine? Sembra proprio, nelle parole di un bambino, l’origine di tutte le questioni. Non sono sicura che a fare la stessa domanda a cento adulti, uomini e donne, si otterrebbero risposte convincenti. «Servono a far più bella la vita» mi ha risposto un amico credendo di dire cosa gradita, immagino sentendosi galante. Deve essere qui il cuore di tutto. Siamo proprio certi che le femmine servano a qualcos’altro che a fare i cuccioli, a rendere piacevole l’esistenza altrui? E loro, le donne, dietro le parole e i gesti di una sicurezza ogni giorno esibita in pubblico ne sono davvero convinte in privato? Cosa sono disposte a offrire a sopportare in cambio della possibilità di dimostrare che no, non servono solo a fare i cuccioli né ad allietare con la loro deliziosa presenza le impegnative vite altrui? Ma soprattutto, perché in fondo sentono, anche quando non lo dicono, di doverlo dimostrare? Vorrei poter dire che se devi uscire alle cinque per un impegno improrogabile e alle cinque meno dieci la persona con cui dividi l’esistenza ti pone una questione epocale da cui dipende l’esito della tua giornata, della settimana e della vita, ecco, quella è una prova di forza, una forma sottile di violenza che si esercita nel celebre quesito: dimostrami che cosa è più importante per te. Perché si sa che l’amore viene prima di tutto, per le donne è certamente così. Perché se hai interessi fuori, più importante deve essere sempre, tuttavia, l’interesse dentro. Perché se un uomo può dire scusami ma ho da fare, e dimenticarsi l’anniversario, la spesa, la festa di compleanno del bambino, la consegna a domicilio, una donna no, non può farlo. O meglio: può, ma paga un prezzo.” CHIARA PASSARELLA
Voglio raccontare l’iniziativa intrapresa a Terni da Terni Donne (Per info: www.ternidonne.com e ternidonne@gmail.com oppure su Facebook al nickname Terni donne) il 26 novembre 2011 dal titolo “Apri gli occhi!” La performance è consistita in una messa in scena della liberazione delle donne vittime di violenza dalla gabbia di indifferenza e debolezza che le imprigiona. Queste donne sono state impersonate da alcune attrici (donne facenti parte di Terni Donne) vestite di bianco mentre cittadini qualunque, che hanno ovviamente aderito all’iniziativa, uomini e donne “normali”, hanno impersonato l’indifferenza. Il tutto si è svolto nel seguente modo: alle 17.00 i partecipanti hanno raggiunto Piazza della Repubblica indossando una maschera neutra di colore bianco e degli abiti di color nero e hanno iniziato a camminare in tutta la piazza e in Corso Tacito fino alle 17.15. Qualcuno ha indossato la maschera dal momento in cui è uscito di casa o è sceso dall’auto, dalla bicicletta o dall’autobus, arrivando da tutte le vie che confluivano su Piazza della Repubblica. E’ stata scelta la maschera neutra come simbolo dell’indifferenza. Alle 17:15 si è formato un semicerchio di persone con la maschera che davano le spalle ai confini della piazza e con il volto rivolto al centro della piazza stessa. Mentre si formava il semicerchio è stato diffuso l’audio di un testo inerente la tematica dell’indifferenza e sono uscite dalla Biblioteca comunale delle donne vestite di bianco che hanno effettuato una performance atta a comunicare il disagio delle vittime di violenza dovuto all’indifferenza di coloro che le circondano, della società, di chi vuol far finta di nulla. Mentre le attrici erano in azione è stata diffusa la lettura di un testo sulla violenza di genere. Ad un certo punto una donna bianca si è diretta verso uno degli indifferenti e gli ha tolto la maschera, da quel momento in poi è iniziato il processo simbolico della consapevolezza degli indifferenti che piano piano si sono tolti le proprie maschere semplicemente sollevandole sopra la testa e lasciando scoperto il viso. Una volta tolte tutte le maschere, le donne bianche sono state accolte ed incluse nel semicerchio degli ex-indifferenti ormai senza maschera. A questo punto è stata diffusa una canzone al termine della quale tutti/e hanno distribuito un volantino predisposto da Terni Donne spostandosi in ogni direzione. L’iniziativa ha riscosso successo con la partecipazione attiva di una settantina di uomini e donne e la presenza di molti cittadini che si sono fermati ai lati della Piazza per assistere alla performance. Riporto uno dei testi letti durante l’iniziativa: “Barbablù sposava le ragazze e le uccideva, poi nascondeva i loro corpi in cantina. Perché lo facesse la storia non lo spiega: non per gelosia, non per rabbia, non per denaro era ricco e viveva in un castello. Solo le uccideva.” “Rosa, come "una spina che gli toglierà la vita". Anche Rosa usa la chiave, apre la porta, getta lo sguardo. Però Rosa, la più piccola delle tre, ha l'anima, il cuore e la mente più grandi. Guarda, non trema. "Non un urlo, ma gli occhi ora sono più grandi." Teste. Braccia. Seni. Gambe. Le sue sorelle fatte a pezzi. Lei le rimette insieme, silenziosa. Le nasconde. Poi ordisce un piano. Inganna l'orco. Si traveste, va via sotto i suoi occhi senza che lui la riconosca. Vince lei. Vince perché ha saputo guardare nel fondo del pozzo dell'orrore e rimanere ferma. Vince chi sa aprire la porta e guardare "con occhi più grandi". Non chi rifiuta di vedere, non chi per paura o per soggezione non apre neppure, non vuol sapere né sentire. Vince chi apre, chi guarda, chi resta fermo e guarda meglio, poi richiude, torna su per le scale. Vince chi va all'inferno e ritorna. Vince chi vuol sapere e poi sa cosa farsene, anche, del suo nuovo sapere.” I due brevi brani sopra riportati sono tratti da “Malamore. Esercizi di resistenza al dolore” di Concita De Gregorio. La scrittrice e giornalista indaga nella quotidianità del mondo femminile, sul rapporto con gli uomini e la violenza. E se - scrive Concita De Gregorio - il dolore delle donne è “un compagno di vita, un nemico tanto familiare da esser quasi amico”, occorre allora trasformarlo in forza. Riporto una parte dell’introduzione di Concita De Gregorio: “Le donne provano la temperatura del ferro da stiro toccandolo. Brucia ma non si bruciano. Respirano forte quando l’ostetrica dice «non urli, non è mica la prima». Imparano a cantare piangendo, a suonare con un braccio che pesa come un macigno per la malattia, a sciare con le ossa rotte. Portano i figli in braccio per giorni in certe traversate del deserto, dei mari sui barconi, della città ai piedi su e giù per gli autobus. Le donne hanno più confidenza col dolore. Del corpo, dell’anima. È un compagno di vita, è un nemico tanto familiare da esser quasi amico, è una cosa che c’è e non c’è molto da discutere. Ci si vive, è normale. Strillare, disperde le energie, lamentarsi non serve. Trasformandolo, invece: ecco cosa serve. Trasformare il dolore in forza. Ignorarlo, domarlo, metterlo da qualche parte perché lasci fiorire qualcosa. È una lezione antica, una sapienza muta e segreta: ciascuna lo sa. Maria Malibran, leggendario mezzosoprano, che impara a nascondere le lacrime durante le terribili lezioni di canto inflitte dal padre. Jaqueline du Pré che suona come un angelo il violoncello e sorride a ogni fitta alle ossa del braccio malato, il braccio che finirà per ucciderla. Denise Karbon che scia ingessata, Vanessa Ferrari che volteggia con una frattura al piede. La prostituta bambina che chiude gli occhi e pensa al prato della sua casa nei campi. La giovane donna che si lascia insultare e picchiare dal suo uomo perché pensa che quella sua violenza sia una debolezza: pensa di capirne le ragioni, di poterle governare, alla fine. Pensa che lui sia fragile quando strilla e quando alza le mani: si calmerà, basterà lasciargli il tempo, si placherà. La compagna del genio, la donna di Picasso che, lei sola, ne conosce e ne tollera le miserie: in questo più forte e più grande di lui. L’artista straordinaria che si lascia soggiogare in una vita ordinaria e la trasforma in poesia, la donna ordinaria che fa dei suoi giorni un capolavoro di pazienza. Le migliaia, milioni di donne che vivono ogni giorno sul crinale di un baratro e che anziché sottrarsi quando possono, quelle che possono, ci passeggiano in equilibrio: un numero da circo straordinario, questo di tentare di addomesticare la violenza la violenza degli uomini qualche volta andando a cercarla, persino. Perché è un antidoto, perché è un prezzo, perché non si può fare diversamente, perché il tempo che viviamo è questo e chiede uno sforzo d’ingegno per conciliare la propria autonomia con l’altrui brutaleinsofferenza. Le storie che ho raccolto sono scie luminose, stelle cadenti che illuminano a volte molto da lontano una grande domanda: cosa ci induce a non respingere, anzi a convivere con la violenza? Perché sopporta chi sopporta, e come fa? Quanto è alta la posta in palio? Alcune soccombono, molte muoiono, moltissime dividono l’esistenza con una privata indicibile quotidiana penitenza. Alcune ce la fanno, qualche altra trova nell’accettazione del male le risorse per dire, per fare quel che altrimenti non avrebbe potuto. Grandissimi talenti sono sbocciati da uno sfregio. Altrettanto grandi sono stati spenti. Per mille che non hanno nome, una cambia il corso della storia. Sono, alla fine, gesti ordinari. Chiunque può capirlo misurandolo su di sé. Sono esercizi di resistenza al dolore. «Le femmine servono ai cuccioli» dice il bambino seduto davanti alla tv, danno un documentario sugli animali. Poi ripete: «Lo sai mamma? Le femmine servono perché devono fare i cuccioli, i maschi da soli non li possono fare». Non c’è dubbio, i maschi da soli non possono. Però le femmine non «servono» solo a fare i cuccioli, penso di rispondere. Non dico niente, invece. Ci sono cose che non si spiegano con le parole. Lo capirà, lo vedrà, lo imparerà strada facendo. Certo, bisogna sempre ricominciare da capo. A ogni generazione di nuovo. Dimostrare, convincere. A cosa servono le femmine? Sembra proprio, nelle parole di un bambino, l’origine di tutte le questioni. Non sono sicura che a fare la stessa domanda a cento adulti, uomini e donne, si otterrebbero risposte convincenti. «Servono a far più bella la vita» mi ha risposto un amico credendo di dire cosa gradita, immagino sentendosi galante. Deve essere qui il cuore di tutto. Siamo proprio certi che le femmine servano a qualcos’altro che a fare i cuccioli, a rendere piacevole l’esistenza altrui? E loro, le donne, dietro le parole e i gesti di una sicurezza ogni giorno esibita in pubblico ne sono davvero convinte in privato? Cosa sono disposte a offrire a sopportare in cambio della possibilità di dimostrare che no, non servono solo a fare i cuccioli né ad allietare con la loro deliziosa presenza le impegnative vite altrui? Ma soprattutto, perché in fondo sentono, anche quando non lo dicono, di doverlo dimostrare? Vorrei poter dire che se devi uscire alle cinque per un impegno improrogabile e alle cinque meno dieci la persona con cui dividi l’esistenza ti pone una questione epocale da cui dipende l’esito della tua giornata, della settimana e della vita, ecco, quella è una prova di forza, una forma sottile di violenza che si esercita nel celebre quesito: dimostrami che cosa è più importante per te. Perché si sa che l’amore viene prima di tutto, per le donne è certamente così. Perché se hai interessi fuori, più importante deve essere sempre, tuttavia, l’interesse dentro. Perché se un uomo può dire scusami ma ho da fare, e dimenticarsi l’anniversario, la spesa, la festa di compleanno del bambino, la consegna a domicilio, una donna no, non può farlo. O meglio: può, ma paga un prezzo.” CHIARA PASSARELLA
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A chi può procedere malgrado gli enigmi, si apre una via. Sottomettiti agli enigmi e a ciò che è assolutamente incomprensibile. Ci sono ponti da capogiro, sospesi su abissi di perenne profondità. Ma tu segui gli enigmi.
(Carl Gustav Jung)
1 commento:
Precisa e forte.
Sky Robertace
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