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LA FOTO DELLA SETTIMANA a cura di NICOLA D'ALESSIO

LA FOTO DELLA SETTIMANA a cura di NICOLA D'ALESSIO:QUANDO LA BANDA PASSAVA...
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633. “MANDRAKE ROOT” (1968) dall’album “Shades of Deep Purple” dei Deep Purple di Roberto Latini
Nel
1968, 50 anni fa, esordirono i famosi hard rocker Deep Purple, ma al tempo non
avevano ancora cesellato quel tipo di sound, bensì eseguivano un genere rock
psichedelico in voga al momento, anche se con ottima personalità. L’album fece
successo a scoppio ritardato e viene ricordato soprattutto per il singolo
“HUSH” (cover di Joe South). E’ la formazione detta Mark I con alla voce Rod
Evans, solo nel 1970 esce una pietra miliare
la cui durezza si evince anche dal titolo “IN ROCK”, quando a cantare non è più
Evans ma il ben più talentuoso Ian Gillan (formazione Mark II). Però un proto-Hard
si può trovare in alcune tracce come nella suggestiva “MANDRAKE ROOT”, brano di
circa 6 minuti. Il BRANO: Rod Evans – voce; Ritchie Blackmore – chitarra; Jon
Lord – tastiere; Nick Simper – basso; Ian Paice – batteria. La song è
percepibile come Hard grazie al riff distorto, all’elettricità chitarristica in
generale, ed una strutturale compattezza, pesante per quei tempi. Sempre vicina
al blues come per tutti i gruppi rock di allora, ma in modo diverso dai Cream
coetanei proto-Hard. La linea cantata e la sonorità vocale posseggono invece un
afflato più rock anni sessanta piuttosto classico per quegli anni, quando poi
al minuto 2.18 inizia la parte solista, entra in gioco una psichedelia giocata
sopra una intelaiatura batteristica piuttosto incalzante, rutilante ed
incessante. E’ la tastiera a intessere la dinamica solista; lo fa anticipando
quella che sarà l’evoluzione futura di Lord. Il finale della parte solista fa
sentire la chitarra per un breve tratto, con il classico suono Fender di
Blackmore, ben riconoscibile. L’insieme solistico è solo parzialmente rarefatto
considerando la pesantezza con cui gli strumenti si esprimono. Questa seconda
parte termina la traccia perché ad essa non fa ritorno quella cantata, creando
così una composizione non ben collegata, come fossero due song differenti, ma
rendendo in qualche modo chiaro, facendosi entrambi quali summa della loro
essenza, ciò che saranno i Deep Purple evoluti del futuro. Dal vivo alcune
versioni si allungarono di circa nove minuti raggiungendo i quindici,
adoperandosi in virtuosismo prolungato che in quegli anni caratterizzava le
performance live. La voce in Mandrake Root è perfettamente integrata nel
periodo presente della loro storia, non anticipa nulla di ciò che sarà, a
differenza delle parti strumentali. Ciò sia nei toni, sia nella sua tecnicità,
dove per esempio viene usato un leggero riverbero alla modalità tipica degli
anni sessanta. Evans appare invece più proiettato nel futuro l’anno successivo,
al terzo album, e l’esempio più lampante lo dà il pezzo “Why didn’t Rosemary?”
che vive di un carattere più incisivo e
reattivo anche in riferimento all’ugola. Ma egli non riuscirà a dimostrare di
poter passare davvero al genere Hard Rock perché fuoriuscirà dal gruppo,
sostituito nel quarto album della band dal potente Gillan. Roberto Latini
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