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In questi anni abbiamo corso così velocemente che dobbiamo ora fermarci perché la nostra anima possa raggiungerci. (Michael Ende) ---- A chi può procedere malgrado gli enigmi, si apre una via. Sottomettiti agli enigmi e a ciò che è assolutamente incomprensibile. Ci sono ponti da capogiro. Sospesi su abissi di perenne profondità. Ma tu segui gli enigmi. (Carl Gustav Jung)

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LA FOTO DELLA SETTIMANA a cura di NICOLA D'ALESSIO

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633. “MANDRAKE ROOT” (1968) dall’album “Shades of Deep Purple” dei Deep Purple di Roberto Latini

Nel 1968, 50 anni fa, esordirono i famosi hard rocker Deep Purple, ma al tempo non avevano ancora cesellato quel tipo di sound, bensì eseguivano un genere rock psichedelico in voga al momento, anche se con ottima personalità. L’album fece successo a scoppio ritardato e viene ricordato soprattutto per il singolo “HUSH” (cover di Joe South). E’ la formazione detta Mark I con alla voce Rod Evans, solo nel 1970 esce una pietra  miliare la cui durezza si evince anche dal titolo “IN ROCK”, quando a cantare non è più Evans ma il ben più talentuoso Ian Gillan (formazione Mark II). Però un proto-Hard si può trovare in alcune tracce come nella suggestiva “MANDRAKE ROOT”, brano di circa 6 minuti. Il BRANO: Rod Evans – voce; Ritchie Blackmore – chitarra; Jon Lord – tastiere; Nick Simper – basso; Ian Paice – batteria. La song è percepibile come Hard grazie al riff distorto, all’elettricità chitarristica in generale, ed una strutturale compattezza, pesante per quei tempi. Sempre vicina al blues come per tutti i gruppi rock di allora, ma in modo diverso dai Cream coetanei proto-Hard. La linea cantata e la sonorità vocale posseggono invece un afflato più rock anni sessanta piuttosto classico per quegli anni, quando poi al minuto 2.18 inizia la parte solista, entra in gioco una psichedelia giocata sopra una intelaiatura batteristica piuttosto incalzante, rutilante ed incessante. E’ la tastiera a intessere la dinamica solista; lo fa anticipando quella che sarà l’evoluzione futura di Lord. Il finale della parte solista fa sentire la chitarra per un breve tratto, con il classico suono Fender di Blackmore, ben riconoscibile. L’insieme solistico è solo parzialmente rarefatto considerando la pesantezza con cui gli strumenti si esprimono. Questa seconda parte termina la traccia perché ad essa non fa ritorno quella cantata, creando così una composizione non ben collegata, come fossero due song differenti, ma rendendo in qualche modo chiaro, facendosi entrambi quali summa della loro essenza, ciò che saranno i Deep Purple evoluti del futuro. Dal vivo alcune versioni si allungarono di circa nove minuti raggiungendo i quindici, adoperandosi in virtuosismo prolungato che in quegli anni caratterizzava le performance live. La voce in Mandrake Root è perfettamente integrata nel periodo presente della loro storia, non anticipa nulla di ciò che sarà, a differenza delle parti strumentali. Ciò sia nei toni, sia nella sua tecnicità, dove per esempio viene usato un leggero riverbero alla modalità tipica degli anni sessanta. Evans appare invece più proiettato nel futuro l’anno successivo, al terzo album, e l’esempio più lampante lo dà il pezzo “Why didn’t Rosemary?” che vive di un  carattere più incisivo e reattivo anche in riferimento all’ugola. Ma egli non riuscirà a dimostrare di poter passare davvero al genere Hard Rock perché fuoriuscirà dal gruppo, sostituito nel quarto album della band dal potente Gillan. Roberto Latini

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IN QUESTI ANNI ABBIAMO CORSO COSÌ VELOCEMENTE CHE DOBBIAMO ORA FERMARCI PERCHÈ LA NOSTRA ANIMA POSSA RAGGIUNGERCI

(Michael Ende)

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A chi può procedere malgrado gli enigmi, si apre una via. Sottomettiti agli enigmi e a ciò che è assolutamente incomprensibile. Ci sono ponti da capogiro, sospesi su abissi di perenne profondità. Ma tu segui gli enigmi.

(Carl Gustav Jung)