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LA FOTO DELLA SETTIMANA a cura di NICOLA D'ALESSIO
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632. HOSPICE, MORIRE BENE da un'Americana a Venezia
Mettiamo molta
enfasì sul nascere bene. Facciamo
lezioni per le partorienti e i loro compagni.
Ci prepariamo per il lieto, sia pur rischioso, avvenimento in ogni
piccolo dettaglio. Ma non ci prepariamo
allo stesso modo per il fine vita, vuoi causata da malattia vuoi dall'età
avanzata. Ci illudiamo nel pensare che quando
dovremo finalmente affrontare i nostri ultimi giorni, la scienza avrà già pensato
per noi. Come risultato, troppo spesso
moriamo male, fra sconosciuti in ospedale, spesso impauriti, oppure finiamo
stupefatti, attaccati ad una decina di dispositivi inutili. Spesso neanche i medici e le infermiere sono pronti
ad affrontare il tema della morte, condizionati come sono dall'obbligo legale
in certe società di operare per la sopravvivenza fisica ad ogni costo. Peggio, qualche volta il dolore che spesso
accompagna la fine, dolore fisico ed emotivo, non viene alleviato in modo
adeguato. E' un peccato, perché il
passaggio verso l'aldilà non deve per forza essere brutto. La morte rappresenta un momento sacro, non
meno sacro della nascita. Esiste un'alternativa
alla sofferenza totale: si chiama hospice, conosciuta anche come cura
palliativa o cura di sopporto. In altri
tempi, l'hospice era un alloggio per viandanti,
spesso gestito da religiosi. Grazie alla
visione di alcune donne moderne, la parola hospice
oggi fa riferimento ad una struttura per malati terminali. Può anche essere un servizio offerto a coloro
che scelgono di rimanere a casa quando la medicina curativa diventa per loro
inutile. Hospice mira a sollevare non
solo la pena del corpo ma anche quella della psiche. L'approccio è compassionevole, quello dell'accettazione
incondizionata dell'individuo e della sua famiglia, con tutti i problemi che
possano manifestarsi nel tempo. Una
squadra di professionisti accompagna il paziente fino alla fine del percorso
naturale, sempre con lo scopo di assicurargli "comfort". Soffrire inutilmente non è contemplato. Solitamente l'hospice è gestita da infermiere e assistenti. Spesso ci sono anche volontari se richiesti. Le infermiere seguono il paziente sotto la
direzione del medico dell'hospice che prescrive i farmaci palliativi del caso. Hanno un ruolo anche gli psicologi e i religiosi,
preparati a dare ascolto e consiglo a pazienti e famigliari. Dopo il decesso, l'intervento terapeutico di
queste persone è garantito alla famiglia.
Il primo centro moderno per pazienti terminali è stato istituito in
Inghilterra grazie a Dame Cecily Saunders (1918-2005), medico che diceva,
"Tu sei importante perché tu sei tu, e rimani importante fino all'ultimo
momento della tua vita." Saint
Christopher's Hospice ha aperto i battenti a Londra nel 1967. Il modello di Saint Christopher's è stato
adottato in tutto il mondo. Negli USA,
invece, il concetto di hospice è stato largamente impostato sull'assistenza a
domicilio, servizio pagato in gran parte dal sistema sanitario Medicare per coloro
che ne hanno accesso. Se il sistema
continua a funzionare bene negli USA, possiamo ringraziare Florence Wald (1916-2008)
che assieme a due pediatri e un cappellano ha creato Connecticut Hospice nel
1974, basato sul modello di Saint Christopher's. Il discorso della "morte dignitosa"
è stato portato alla luce da Elisabeth Kubler-Ross (1926-2004) nel suo libro La morte e il morire nel 1967. Per scriverlo, Kubler-Ross aveva intervistato
più di 500 pazienti terminali. Era
convinta che le famiglie dei pazienti elaboravano meglio il lutto se i pazienti
avevano passato gli ultimi tempi a casa, dove la loro dignità poteva essere
rispettata. L'idea di morire
nell'intimità della propria casa è un pilastro del movimento hospice negli USA. Molte famiglie che conosco hanno avuto questa
benedizione. Ho già avuto due occasioni diverse
di conoscere personalmente squadre di hospice.
Tutto il personale è sempre stato impegnato ad assicurare un periodo
sereno a chi deve dirsi addio. Ho appena
letto che solo una persona su quattro sfrutta i servizi di hospice negli USA, dato
che indica che la maggior parte delle persone afflitte da malattie terminali muore
fuori casa, forse poco confortata. E' ora
di accettare la Sorella Morte, come la ha chiamata San Francesco d'Assisi. Lasciare questo mondo è un rito di passaggio,
non un fallimento. E' una transizione,
un viaggio oltre l'orizzonte, e per i nostri cari, forse solo un arrivederci. UN’AMERICANA A VENEZIA
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