"THE ASTONISHING” album 2016 dei Dream Theater
scorr
...in altre lingue...
...in altre lingue...
LA FOTO DELLA SETTIMANA a cura di NICOLA D'ALESSIO
Questo blog non ha finalità commerciali. I video, le immagini e i contenuti sono in alcuni casi tratti dalla Rete e pertanto sono presuntivamente ritenuti pubblici, pur restando di proprietà del rispettivo autore. In ogni caso, se qualcuno ritenesse violato un proprio diritto, è pregato di segnalarlo a questo indirizzo : rapacro@virgilio.it Si provvederà all’immediata rimozione del contenuto in questione. RR
551. RECENSIONI 2016 di Sky RobertAce Latini
"THE ASTONISHING” album 2016 dei Dream Theater
Etichetta:
Roadrunner Records
Ecco
nel 2016 i Dream Teather essere ben vivi e vegeti col loro tredicesimo album
dal 1989; dopo tanti anni di carriera ancora profondono massimo impegno. E stavolta
l’impegno si tramuta in un doppio album. Più di due ore di musica, lungo
quindi, creato così per necessità tematica, dato che si tratta di un concept
scritto come una storia vera e propria, tipo musical. La struttura prevede
brani completi ma anche tanti piccoli pezzi ad assemblare un viaggio da non
spezzare nell’ascolto. La storia racconta di un mondo distopico dove le
macchine governano. Le Nomacs, appunto il nome delle macchine, si sentono nella
prima traccia, poi in “The Houvering Sojourn”, in “Digital Discord”, in
“Machine Chatter” e in “Power Down”; ben 5 volte quindi ma è una sonorità che
piace ascoltare come fosse musica sperimentale, seppur per brevi inserti. Valore?
Io credo che sarà un album controverso, un lavoro su cui dire bene e meno bene.
Sempre di Dream Theater al 100% si tratta, indiscutibili nella loro tecnica e
nel loro Progressive-style. Ma le idee musicali sono davvero tutte personali?
Già “Dystopian Overture e “The Answer” fanno affiorare passaggi scontati e già
sentiti (per esempio in “Brother, can you hear me?”), troppo didascalici,
comuni a tanta acqua di storia passata sotto i ponti della musica. Questa
sensazione si ha più volte in varie zone del disco, e forse la causa di ciò sta
nel voler essere proprio raccontatori di storia; mettendosi infatti al servizio
di essa la musica diventa un po’ indirizzata e sottomessa al concept. “The Gift
of Music” non è male ma non appare di alto livello, anzi è nella media
standard, anche se buona; lo stile ricorda fortemente i Rush. “A BETTER LIFE”
diventa la prima traccia degna del meglio della band, molto morbida e sognante;
vicina ad essa,come apertura anche se più dinamica e virtuosistica, troviamo la
altrettanto bella “MOMENT OF BETRAYAL”. Bella anche la raffinata “A LIFE LEFT
BEHIND” che ricorda i suoni di Yes o Asia nella sua fresca ritmicità; ma
possiede anche una gustosissima linea melodica soft. Interessante “Lord
Nafaryus”, con la sua parte ad andamento di tango, che però non è così originale, utilizzando
modalità teatrali non certo nuove (usate anche dai Nightwish). Teatralità mostrata
anche in “Three days”, che però appare migliore in quanto meno derivativa. Episodio
nettamente di valore è uno dei pezzi più duri: si tratta di “A NEW BEGINNING”,
anch’essa con tratti teatrali, in cui arriva una parte solistica degna dei
grandi D.Theater, e che presenta però anche un momento soffice cantato. Invece
la durezza mista a classico prog la troviamo in pezzi come “A Tempting Offer”. nParti
strumentali virtuose esistono così come gli assoli che li hanno sempre
contraddistinti, ma più che in passato, il cantato acquista maggiore spazio
nella percentuale registrata. La voce di LaBrie scorre bellissima e luminosa,
davvero ottima prestazione. Alla chitarra si preferisce il pianoforte, sebbene
non si evitino accordi chitarristici duri, solo che c’è meno metal del solito
nonostante l’appeal di base sia sempre quello. Non grande virtuosismo
tastieristico, ma piace sentire l’Hammond in “The X Aspect”. L’album è promosso
perché comunque le emozioni vengono evocate, e perché alla fine l’insieme
funziona. Per me è uno degli album meno riusciti, comunque la magia arriva, e
la voglia di ascoltare non va via. Alfine è forse anche uno dei lavori più
orecchiabili e commerciali della band. In questo senso brani come “When your
Time Has come” (un po’ alla Yes) rappresentano davvero questa facile
ascoltabilità. E la ballata “Act of Faythe”, non solo è fruibilissima, ma
diventa quasi dysneiana rischiando di risultare pacchiana; fortuna che la band
consta di grande spirito artistico e sa truccarla bene, donandogli persino un
finale epico e fatato. Ballate più d’una, tutte decenti ma non sempre il
massimo della particolarità. Del tutto discutibile la dolcezza di “Chosen” che darei ad un gruppo AoR che non ci
sfigurerebbe nell’usarla, non è brutta ma di tipo comune, e che salvo davvero
solo per l’assolo di chitarra. Per dirla meglio, chi può criticare “Losing
Faythe”? Chi può dire che è brutta? Però è nella scia quasi pop se non fosse
per l’enfasi che vi si riesce a dare. Come soft-song si apprezza meglio
l’inizio di ”RAVENSKILL” perché elicita una atmosfera più introspettiva, anche
se fa il verso a Freddy Mercury dei Queen, o forse si gode proprio per questo;
la seconda parte della song è più tonica ma senza velocizzarsi troppo, ampliando
enfasi e ariosità. Non male anche “Begin again”
e “Whisper on the Wind”. Una
ballata più densa invece è “Hymn Of A Thousand
Voices”, quasi celtica (folkeggiante per la presenza importante del
violino) che termina con pathos enfatico e che assume in sè parte di quella
verve tipica dei prog-rocker Kansas. C’è un motivo di base ripetuto in varie
sezioni del disco e anch’esso è soffice, ma la continuità si ha stilisticamente
senza fratture estetiche. Tra il primo e il secondo cd non vi sono grandi
differenze valoriali, ma il secondo appare più compatto e maggiormente incisivo
senza perdersi in troppe distrazioni sonore. Anche situazioni minori come
“Heaven’s Cove” e “The Path that divides” hanno un buon appeal tonico e
appaiono pregnanti. Opera Rock, che può essere considerata scintillante,
sebbene non l’apice compositivo dei Dream. Resta forte il senso dell’eleganza
che proviene dalla classe da sempre espressa e che qui come al solito non viene
lesinata. Sembra che il gruppo si sia divertito senza voler essere originali a
tutti costi; e sembra, stranamente allo stesso tempo, tutto spontaneo e tutto
studiato.
ACT I
ACT II
01.
Descent Of The NOMACS
01. 2285 Entr’acte
02.
Dystopian Overture
02. Moment Of Betrayal
03.
The Gift of Music 03
Heaven’s Cove
04.
The Answer
04. Begin Again
05.
A Better Life
05. The Path That Divides
06.
Lord Nafaryus
06. Machine Chatter
07.
A Savior In The Square
07. The Walking Shadow
08.
When Your Time Has Come
08. My Last Farewell
09.
Act Of Faythe
09. Losing Faythe
10.
Three Days
10. Whispers On The
Wind
11.
The Hovering Sojourn
11. Hymn Of A Thousand Voices
12.
Brother, Can You Hear Me?
12. Our New World
13.
A Life Left Behind
13. Power Down
14.
Ravenskill
14. Astonishing
15.
Chosen
16.
A Tempting Offer
17.
Digital Discord
18.
The X Aspect
19.
A New Beginning
20.
The Road To Revolution
James
laBrie – vocals / John Petrucci – guitars /
Jordan Rudess – keyboards
John
Myung – bass / Mike Mangini - drums
***
Etichetta: Frontiers Music
Se esce un album di musica hard fortemente
tradizionale, da cifra stilistica anni settanta/ottanta, ed è un debutto, deve
essere di qualità perché altrimenti si scopre l’acqua calda. E gli Inglorious
sono una realtà invece freschissima, che legge il passato fedelmente si, ma con
la capacità di donare elettrica contemporaneità dal punto di vista energetico e
dell’ispirazione. Niente sperimentazione né ibridazioni quindi, ma belle e
rotonde song. Si naviga tra Led/Deep, ma soprattutto Whitesnake e Hughes, in
una avvolgenza calda che prende in sé tanto feeling bluesato. Un po’ alla
Voodoo Circle, ma con tanta tanta, davvero tanta, personalità in più,
probabilmente per l’eccezionale voce di Nathan che già conosciamo per i
trascorsi con la Trans-Siberian Orchestra ed altre esperienze, e anche grazie
alla chitarra agguerrita che spara virtuosismi efficaci seppure al servizio
della forma canzone. L’inizio è un po’ una trappola, perché l’intro di “UNTIL I
DIE” dà adito all’idea che stia per essere sparato un colpo tipo “Highway Star”
dei Deep Purple, lo fa supporre l’Hammond e la ritmica batteristica in
crescendo, invece si stoppa un po’ con il riff alla Page; una saldatura un po’
forzata che suona male, ma poi la carica emotiva successiva sovrasta il fastidio e lo elimina. Ed ecco allora una
suggestiva e tonica vibrazione che segue il rock più verace tramite un
middle-time corposo. Subito dopo giunge la velocizzazione di “BREAKAWAY”,
cavalcata ben cadenzata alla Whitesnake, in cui la voce regala caldo afflato.
Il respiro è rock ma l’anima blues non
sta molto nelle retrovie, è però in “HOLY WATER” che la cosa diventa netta,
brano che quasi sembra composto da Joe Bonamassa. Una seducente magia esprime
la title-track “INGLORIOUS”, che inganna con la sua melliflua morbidezza,
mentre alla fine, tra gli accordi scuri e la voce epica, possiede una possenza
che sposta infatti il tasso stilistico dall’approccio Coverdale a quello Ronnie
James. Questo appena raccontato è il poker degli episodi migliori, e però tutte
le canzoni presenti sono fascinose e costruite in modo da rimanere dentro,
composizioni che non stancano. Certo l’uso di alcuni riff non prettamente
originali rischiano di fare abbassare il livello del disco, ma ascoltando “High
Flying Gypsy”, che ha questo difetto, ci accorgiamo che invece la band riesce a
non farsi tirare giù e offre sempre la bella soluzione melodica e strutturale
che mantiene la promessa. L’attacco più duro è “Warning”, dove l’assolo di
chitarra, se si fosse sviluppato di più,
ne avrebbe incrementato il tasso adrenalinico. La prova del nove si ha sulle
parti soft, le quali sono sempre difficili da realizzare senza il rischio di
apparire scontati. Invece la band esce vittoriosa anche su questo campo e la
bellezza del songwriting si coniuga alla sensibilità dell’arrangiamento; basti
sentire la densa “Bleed for you” e la dolce acustica “Wake”. E certo molto merito in tal senso va
dato al cantante; ci si trova davvero di fronte ad una delle più capaci ugole
degli ultimi anni, vigorosa e intensa. L’album è pieno di acuti che più che
ricordare Gillan, ricordano Hughes; una notevole abilità esecutiva mista a
passione che non usa l’acuto solo come urlo di potenziamento del passaggio
sonoro, ma come fa Hughes, la tonalità acuta viene usata anche nella frase
melodica. In definitiva ascoltando questa opera si può lasciar perdere il termine
“vintage” che ci potrebbe pure stare, ma che non racconta appieno un disco il
quale non è una mera copia ma un bel modo di
far rivivere uno stile. Ma anche se volessimo usarlo, è un termine che
non vuole assolutamente tacciare il suono della band di derivativo, cosa che
invece vale per i Voodoo Circle già citati. La Gran Bretagna non è più la
nazione guida del Rock e del Metal, ma quando sforna un gruppo così, tira fuori
tutta la forza verace della sua tradizione, ricordando a tutti dove è nato il
tasto duro della musica. Ci sono gruppi inutili al posto dei quali è meglio
tirare fuori un vecchio vinile di band antica, mentre con gli Inglorious è come
se il passato fosse qui a continuare verso il futuro da dove aveva lasciato.
01.
Until I Die 02. Breakaway 03. High
Flying Gypsy 04. Holy Water 05.
Warning
06.
Bleed For You 07. Girl Got A Gun 08. You’re
Mine 09. Inglorious 10. Wake 11. Unaware
N.
James –vocals / A. Eriksson –guitars / W. Taylor –guitars / C. Parkinson –bass
/P. Beaver -drums
Sky RobertAce Latini
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
* * *
IN QUESTI ANNI ABBIAMO CORSO COSÌ VELOCEMENTE CHE DOBBIAMO ORA FERMARCI PERCHÈ LA NOSTRA ANIMA POSSA RAGGIUNGERCI
(Michael Ende)
* * *
HOME PAGE DEL BLOG (clikka qui)
***
ELENCO DEI POST(clikka qui)
ULTIMA NEWSLETTER(clikka qui)
***
IL FILM, IL LIBRO, IL BRANO, LA POESIA DEL MESE (clikka qui)
***
WEBMASTER: Roberto RAPACCINI
A chi può procedere malgrado gli enigmi, si apre una via. Sottomettiti agli enigmi e a ciò che è assolutamente incomprensibile. Ci sono ponti da capogiro, sospesi su abissi di perenne profondità. Ma tu segui gli enigmi.
(Carl Gustav Jung)
Nessun commento:
Posta un commento