Nella
notte bianca
Non ho chiuso la porta,
non ho acceso le candele,
non lo sai ma, per quanto fossi stanca,
non riuscivo ad andarmene più a letto.
Guardare, come si smarriscono i sentieri
dentro al bosco, all’imbrunire ormai del giorno,
ebbra del suono di una voce
che è simile alla tua.
E sapere che tutto è già perduto,
che la vita è un tremendo inferno.
Ero certa
che saresti ritornato.
Anna
Andreevna Achmatova da “Il silenzio
dell’amore” – 1911
Anna
Andreevna Achmatova (1889-1966) pseudonimo di Anna Andreevna Gorenko nacque
a Bol’soj Fontan, un elegante quartiere di Odessa, il 23 giugno1889, terza dei
cinque figli di Andreij Antonovich Gorenko, funzionario pubblico, e di Inna
Erazmovna Stogova, entrambi di nobile famiglia. Il padre, ingegnere meccanico
di marina, si trasferì prima nei sobborghi di Pietroburgo, a Pavlovsk, e poi a
Càrskoe Selò. Precoce, Anna a cinque anni parlava perfettamente il francese ed
era una grande lettrice. A dieci, superata una grave malattia, cominciò a
scrivere: un diario, piccole storie, ritratti di compagni di gioco. Nel
1905 i genitori si erano separati e Anna si era trasferita a Kiev, dove nel
1907 terminò il liceo e si iscrisse alla facoltà di Legge. Nel frattempo,
avendo cominciato a comporre poesie e manifestando il desiderio di pubblicarle,
il padre le suggerì di ricorrere a uno pseudonimo letterario e la scelta cadde
sul nome della bisnonna materna, Achmatova. La sua prima poesia è datata 1900,
a undici anni, e la prima pubblicata apparve sulla rivista parigina “Sirus”,
edita da Gumilëv, nel 1907. Nel 1903 cominciò la storia sentimentale con il
poeta Nikolàj Gumilëv, maggiore di tre anni rispetto a lei ed ex allievo di un
insegnante ginnasiale di Anna. Anna era coinvolta (“Prego il
raggio che dalla finestra / entra pallido, sottile, dritto. / Da stamattina non
parlo, / il cuore spezzato in due”), ma appariva discontinua (“l’ho fatto ubriacare / di aspra malinconia”) e Gumilëv
era innamorato a tal punto da tentare il suicidio per superare le sue
resistenze (“Scherzavo. / È stato tutto uno scherzo. Se te ne vai, muoio”). Si sposarono nel 1910 e il
matrimonio durò fino al 1918 e nel 1912 nacque il figlio Lev Nikolaevič
Gumilëv, che divenne geografo, antropologo e storico, e che fu arrestato
ingiustamente per tre volte e visse ben diciotto anni in un campo di lavoro e
solo dopo la morte di Stalin poté cominciare la sua carriera accademica (nel
periodo della perestroika i suoi lavori raccolsero un ampio consenso, tanto
che, dopo la sua morte, si decise di intitolare a lui l’Università statale a
Astana, capitale del Kazakistan). Anna faceva parte della corporazione “La
Gilda dei poeti” (Cech poetov), nata nel 1911 e
orbitante intorno alla rivista “Apollon” dalle cui
pagine Gumilëv insieme con Sergej Mitrofanovič Gorodeckij teorizzavano i
principi del così detto “acmeismo”. Il nome del movimento, che intendeva
alludere al punto estremo della lucidità espressiva, si alternava con quello di
“adamismo”, più propriamente voluto da Gumilëv, in opposizione al simbolismo,
sviluppando una diversa tematica e un nuovo stile espressivo fondati sulla
chiarezza rappresentativa, sulla concretezza dei contenuti ancorati alla
“realtà” dei sensi e sullo studio dei valori formali del verso. L’acmeismo, che
non riusciva a tenere il passo con gli avvenimenti determinati dalla
rivoluzione per l’inadeguatezza delle sue componenti ideologiche, superato
nell’attenzione generale dal futurismo, rappresentava il momento drammatico di
una generazione che cercava di adeguarsi all’accelerazione imposta dagli eventi
della storia. Pur avendovi aderito due poeti di grande talento come l’Achmatova
e Mandel’štam, il movimento ebbe vita breve, travolto poi dall’arresto del suo
fondatore e dall’accusa di tradimento che lo portò alla condanna a morte. Anna
aveva composto la sua prima opera, La sera, nel 1912, Nello stesso anno fece un viaggio a
Parigi, dove conobbe tra gli altri Amedeo Modigliani, che la ritrasse in
numerosi disegni (eseguiti a memoria, uno dei quali è conservato a San
Pietroburgo). Venne in Italia, visitando numerose città: Venezia, Genova,
Padova, Bologna, Pisa e Firenze. E dirà che la pittura e l’architettura
italiana sono “simili a un sogno che poi ti ricordi per tutta la vita”. La
produzione poetica continuò fervida negli anni seguenti: al primo libro
seguirono Rosario nel
1914, con cui ottenne una vastissima popolarità, e poi Lo stormo bianco nel 1917, la sua terza raccolta di
poesie, che ebbe con il favore dei lettori l’adesione di molti
critici. L’anno seguente divorziò da Gumilëv, partito volontario per il
fronte, e finì un rapporto importante che segnerà per sempre la vita e la
produzione dell’Achmatova. Dopo il divorzio, Anna lavorò alla biblioteca
dell’Istituto di Agronomia, e nel 1918 sposò il poeta e assirologo Vladimir
Šilejko, uomo patologicamente geloso e possessivo. Anche questa unione terminò,
nel 1921, l’anno in cui Gumilëv, che nel frattempo si era risposato, venne
accusato di aver preso parte ad un complotto sovversivo monarchico e venne
fucilato il 25 agosto. Nel 1921 uscirono Piantaggine e,
a breve distanza, Proprio sul mare e,
nel 1922,Anno Domini MCMXXI: raccolte di versi ispirate da una
forte nostalgia delle vicende passate, una sorta di elegia dolorante che spesso
assumeva quasi la cadenza di una preghiera. Anno Domini fu
l’ultima raccolta dell’Achmatova e nei quarantaquattro anni che seguirono
nessun libro nuovo vide la luce (dal 1922 al 1966, anno della sua morte, non
poté pubblicare un libro “veramente suo”). Negli anni del dopoguerra furono
proposte solo due antologie selezionate e censurate dalla casa editrice di
Stato, con testi della prima produzione e con le poesie di guerra, allo scopo
di attestare al pubblico soprattutto straniero che l’autrice era viva e fedele
al regime. Nella Russia sovietica, l’Achmatova era vista con sospetto come
ex-moglie di un poeta controrivoluzionario. Oltre tutto, negli anni tra il 1917
ed il 1921, non si era espressa in alcun modo riguardo ad una adesione
personale alla Rivoluzione, pur scegliendo di non emigrare dal paese. Si
ritrovava fondamentalmente sola, in una Russia che non la condannava ancora
ufficialmente, ma che le era comunque palesemente ostile. Per sopravvivere,
contava come l’amico Mandel’štam sull’appoggio di Boris Pasternak, svolgendo
sporadicamente la professione di traduttrice e dedicandosi intanto allo studio
dell’opera di Puskin. Ma i tragici sviluppi del regime stalinista le serbavano
ulteriori e drammatiche sofferenze. Nel 1925 nacque la nuova infelice relazione
con Nikolàj Punin, critico e studioso d’arte e la poetessa si trasferì, a causa
della crisi degli alloggi, nella casa della Fontanka a Leningrado, dove
conviveva con lo studioso, la sua ex moglie e la figlia, e suo figlio Lev. La
situazione familiare era, insomma, innegabilmente difficile e la vita nella
Russia sovietica contraddistinta da una crescente politica del terrore (“ma noi
abbiamo imparato, una volta per tutte / che sa di sangue, soltanto, il
sangue…”). Si determinò per l’Achmatova un’interruzione dell’attività poetica,
che si protrasse fino alla fine degli anni trenta. È alla vigilia dell’apertura
dei campi staliniani e delle deportazioni che Anna riprese a poetare, dopo la
separazione da Punin, avvenuta nel 1938. Raccolse i versi in un’antologia di
poesie scritte fra il 1924 e il 1941, Il salice, che nella realtà non uscì mai. Il 13 marzo
1938 suo figlio venne arrestato e condannato a morte (condanna poi convertita
in deportazione) a causa probabilmente del cognome del padre. Anna si recò,
come molte madri russe, al carcere delle Croci per avere notizie di Lev. Ne
nacque il poemetto Requiem, che le migliori amiche provvidero a imparare
a memoria, sicure dell’intolleranza del governo. Era un canto straziato che,
seppure non dato alle stampe, si guadagnò, anche solo in forma orale, una fama
vastissima. Il ciclo di poesie era uno spietato atto di accusa contro la
dittatura di Stalin. Pubblicandolo vent’anni dopo, l’Achmatova scrisse nella
prefazione: “Negli anni terribili della ežóvščina ho passato diciassette mesi
in fila davanti alle carceri di Leningrado. Una volta qualcuno mi riconobbe.
Allora una donna dalle labbra livide che stava dietro di me e che, sicuramente,
non aveva mai sentito il mio nome, si riscosse dal torpore che era
caratteristico di noi tutti e mi domandò in un orecchio (lì tutti parlavano
sussurrando): Ma questo lei può descriverlo? E io dissi: Posso. Allora una sorta
di sorriso scivolò lungo quello che un tempo era stato il suo volto”
(Leningrado, primo aprile 1957). Nel 1941 incontrò Marina Cvetaeva, in un
intenso reciproco scambio di visioni e di umori. “Due poesie diverse, radicate
nello stesso terreno sconvolto della Russia novecentesca, quella dell’Achmatova
e quella della Cvetaeva: classica e apollinea la prima, trasgressiva e
dionisiaca la seconda. E due vite diverse, anche se entrambe tempestose di
amori e piagate di dolori”, come ebbe a dire Vittorio Strada. Il poemetto Lungo tutta la Terra risaliva a quello stesso periodo. Nel
1941 la Germania aveva invaso la Russia e Stalin fece ricorso a tutti quei nomi
che, da tempo in disgrazia, potevano tornare utili. L’Achmatova, con il
prestigio e la fama che aveva sia pure per vie del tutto clandestine, parlò
alla radio per favorire l’unità del popolo russo contro la minaccia hitleriana.
Nel frattempo il nemico avanzava e Anna fu evacuata, insieme con altri
intellettuali, da Leningrado a Taskènt. Qui scrisse Luna allo zenit, e il tema
centrale della produzione poetica divenne la guerra, come anche nella serie Il vento della guerra.
Compose, negli anni 1942-43, le Elegie del Nord. Nel 1944 tornò a Leningrado, nella
casa della Fontanka. Continuava intanto a lavorare al Poema senza eroe,
iniziato nel 1942, al quale continuerà a dedicarsi per ondate fino al 1962.
Nello stesso anno il figlio Lev venne liberato perché costretto ad arruolarsi
nell’Armata Rossa e raggiunse poi la madre alla fine della guerra, ma venne
arrestato di nuovo nel 1949. Nello stesso periodo Anna riprese a pubblicare su
diverse riviste. La risonanza di una breve relazione con il primo segretario
dell’ambasciata inglese Isaiah Berlin (1945), resa pubblica dal giornalista
Randolph Churchill (il figlio di Winston), insieme con l’arresto e l’esilio in
Siberia di Punin, contribuì all’espulsione della poetessa dall’Unione degli
scrittori sovietici nel 1946 con l’accusa di estetismo e
di disimpegno politico,
sulla scia delle critiche ždanoviane di pessimismo nevrotico, misticismo e
culto per il passato (divenne famosa la definizione che Ždanov diede
dell’Achmatova: “mezza suora e mezza puttana”). Circostanze, tutte, che
provocarono in lei un periodo nero di isolamento, come appare evidente in Frantumi: “Appendetemi
al gancio sanguinolento, / come una belva uccisa, / perché increduli e
ridacchiando / gli stranieri mi girino attorno / e scrivano in fogli autorevoli
/ che si è spento il mio impareggiabile dono, / e che io ero poeta tra i poeti,
/ ma è scoccata / la mia tredicesima ora.” Nel 1950, terrorizzata dal pensiero
che il figlio potesse essere ucciso, scrisse su consiglio degli amici, quindici
liriche dedicate a Stalin, il ciclo di poesie Slava Miru (Gloria alla Pace), in ossequio al “comunismo
radioso”. Lev fu infatti risparmiato molto probabilmente grazie a questo
intervento e venne liberato tre anni dopo la morte del dittatore, quando
per Anna l’incubo cessò definitivamente. Anche
dopo la morte di Stalin nel 1953, l’Achmatova continuò ad essere sottoposta ad
una severa censura in patria e fu parzialmente riabilitata dopo il Congresso
del Pcus del 1956. Lei, del resto, in pubblico continuava a considerare
negativamente il realismo socialista dominante in letteratura e a ritenere
veramente decisiva solo la produzione degli scrittori dissidenti. Nel 1961,
cinque anni prima di morire, in un breve componimento intitolato “Noi quattro”, insisteva a riconoscere, senza enfasi ma
con piena consapevolezza, il valore letterario fondamentale dei pochi che non
si erano piegati ai dettami del regime, accostando alla sua le voci di Osip
Mandel’štam, Boris Pasternak e Marina Cvetaeva. Pubblicò nel 1962
un’opera alla quale lavorava già dal 1942, il Poema senza eroe, un nostalgico ricordo del passato
russo, rielaborato attraverso la drammaticità che la nuova visione della Storia
imponeva. Sulla sua poetica continuavano ad esercitare influenza le opere della
tradizione non solo russa, tra cui in particolare la Divina commedia di Dante,
che Anna rileggeva di continuo direttamente in italiano. Come testimonia il
filosofo Vladimir Kantor: «Quando chiesero ad Anna Achmatova, la matriarca
della poesia russa, se aveva letto Dante, con il suo tono da grande regina
della poesia rispose: “Non faccio altro che leggere Dante”». Nel 1964 la
poetessa ebbe il permesso di lasciare la Russia per ritirare, in Sicilia, il
premio “Etna – Taormina”. L’anno seguente presso l’università di Oxford
ricevette la laurea honoris causa. Le associazioni culturali russe la
riabilitarono del tutto come una dei massimi poeti sovietici del secolo e nel
1965 uscì una nuova raccolta, La corsa del tempo, che contiene tra l’altro le
liriche degli ultimi anni, i cicli “La rosa di macchia fiorisce” e
“Ghirlanda per i morti”. Anna Achmàtova, già sofferente
di cuore, è morta di una crisi cardiaca a Domodedovo (Mosca) il 5 maggio 1966. “Alta, magra, con lunghe gambe, lunghe braccia
sottili, un viso illuminato da occhi sensibili e acuti, un naso aquilino che affascinò i suoi ritrattisti, da Modigliani ad
Al’tam, era l’immagine della femminilità,
affascinante, dominante, misteriosa...”. Così è stata descritta una donna
eccezionale: un poeta russo, oggi noto in tutto il mondo. Poeta, al maschile,
perché non amava essere chiamata poetessa: le sembrava che limitasse il campo
dei sensi e di sapere che la ispiravano. La sua vocazione fu precoce: a tredici
anni aveva già letto in francese tutto Baudelaire e Verlaine, e incominciò a scrivere poesie: piccoli gioielli, nelle quali un’emozione, un
sentimento si esprimono per mezzo di un gesto, un oggetto, un suono. La lingua
è semplice, essenziale. Il tema principale: l’amore, il quale “a volte sotto il ghiaccio che splende” può essere “la visione di un fiore. / Ma conduce, in segreto, a colpo sicuro,
/ Lontano dalla gioia tranquilla.” È l’amore che fa soffrire, la
constatazione dolorosa delle “solitudini in due“,
delle separazioni, degli incontri mancati, e solo il fervore religioso riesce a
lenire questa sofferenza. Chiara Passarella
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