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LA FOTO DELLA SETTIMANA a cura di NICOLA D'ALESSIO
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501. IL SUONO-PAROLA E I LABIRINTI DELL' ANIMA: PAOLO CONTE di Chiara Passarella
Venerdì 10
luglio Paolo Conte ha aperto Umbria Jazz 2015 all’Arena Santa Giuliana di
Perugia. Una serata nella quale, più che mai, si sono respirate le vibranti
energie di un autore che dai vecchi dischi di musica jazz americana, ascoltati
“illegalmente” durante gli anni plumbei del regime di Mussolini, è passato a
firmare capolavori italiani conosciuti nel mondo come “Azzurro” (resa celebre
da Celentano) ma anche piccoli ma intramontabili gioielli come “Insieme a te
non ci sto più per la Caselli, “Tripoli” per Patty Bravo, e ancora “Siamo la
coppia più bella del mondo” per la Mori e Celentano. Cole Porter e George
Gershwin, swing d’oltreoceano: un
musicista colto e raffinato, un paroliere versatile, profetico, ironico, un
cantante dalle mille anime musicali. Studia pianoforte, accostandosi
all’universo del jazz fin da giovane, plasma la sua duttilità musicale
scrivendo testi e musiche per altri, si forma con studi umanistici ed una
laurea in Giurisprudenza per poi abbandonare la carriera forense per vivere di
arte. Già sul palco di Umbria Jazz nel 2009, Paolo Conte è tornato dopo
l’uscita del suo ultimo lavoro:
“Snob”, 15 inediti che convogliano all’interno di un percorso
musicale intriso di essenzialità e raffinatezza, un ritorno alle sue origini
musicali: jazz, swing e parole che esprimono la compiutezza di un immaginario
pittorico costruito a partire dalle parole, dai suoni, in bilico tra
esplorazione, passato e futuro. Il grande pubblico conosce alla perfezione «Genova per noi», «Gelato al
limon», «Onda su onda», «Azzurro», «Bartali», «Messico e nuvole». Ma questa è
solo la parte emergente dell' iceberg. Perché Paolo Conte è soprattutto canzoni
che si scoprono per attrazione e non per promozione. Il Conte doc si muove fra pizzi, ricordi,
cartoline ingiallite, risatine, falsetti con accento francese, con una
orchestrazione cesellata, esplosioni di antiche macchine fotografiche al lampo
di magnesio. Insomma un Conte visionario che si immerge nell' ottimismo del
futurismo, aerei scintillanti, auto potenti che scalpitano nei box, treni che
sferragliano portando via languori di amori misteriosi. Mentre vecchi cristalli
tintinnano nel trasandato hotel, che fa rima con Guglielmo Tell. Perché Conte è
il maestro del disegno rapido, colui che con pochi tratti vocali e musicali
riesce a rendere con immediatezza il senso di una situazione. È l' artista che
usa la parola non per il suo significato letterale, ma semmai per la sua
potenziale vocazione fonetica. Prigioniero di una lingua ahimè povera di
tronche, Conte le stana con fatica e quando non ci riesce si rifugia nel
ruggito, nella ratatatà, nella petulante trombetta a membrana (kazoo) o fa
esplodere i sassofoni. Conte ha una profonda cultura musicale che lo mette al
riparo da ogni manierismo. Così affronta da sempre un viaggio nelle umane
contraddizioni, nelle debolezze, nei paradossi. La parola jazz si riempie di
sensualità, «Spassiunatamente» (in «Aguaplano») è tutto un toccare, scivolare,
palpeggiare, un ipnotico inno partenopeo alla lussuria, un rigirarsi interrotto
da sussulti di piacere. Succede spesso che, nelle canzoni di Conte, una
struggente storia d' amore si sfilacci via via in un gioco di paradossi incrociati
che l' autore si diverte a tessere con una certa malizia: è il caso di «Dal
loggione». Lui non capisce niente di musica e di concerti, è lì per rivedere
lei, indifferente in platea. Ma la storia d' amore si dissolve nella esilarante
parodia di quel che succede in palcoscenico mentre la musica cita i più
classici luoghi comuni del melodramma. Due
canzoni in particolare, eseguite ieri sera, mostrano la capacità pittorica
della musica di Conte: «Max» e «Diavolo rosso». Il tema della prima dipinge i
labirinti dell' anima, la seconda l' inquietudine fisica dell' uomo
simboleggiata da questo bolide che si inerpica per monti e per valli. In un
intervista, Paolo Conte descrive così il
suo estro interpretativo dal vivo: “Inseguo
i profumi che una canzone aveva quando è nata. Le canzoni nascono fresche,
fragranti di misteriose essenze. Quando sono nuove debuttano con una certa
enfasi, come fanciulle in fiore attente a mostrarsi per bene con apparente
pudicizia. Col passar del tempo, ma soprattutto col successo, perdono l' aroma
delle origini. È per questo che, per esempio, su "Bartali" e
"Sudamerica" io accelero i ritmi, mi concentro, mi spremo nel
desiderio di restituir loro la magia del momento in cui sono nate». Spesso
questi successi, dal vivo, diventano balocchi da smontare e ricostruire secondo
l' estro del momento. A dominare tutta l' opera è il piacere del suono-parola,
quella «Donna d' inverno» «algebrica e pensosa», quella terra esotica dove «era
ancestrale il gesto tropicale», per non parlare della ricerca di «un po' d'
Africa in giardino fra l' oleandro e il baobab», o quel guidare mentre lei
dorme tornando da un ballo a Stradella via Broni, Casteggio, Voghera. E le
donne? Mah: le donne, nelle canzoni di Conte odiano il jazz... Non si capisce
il motivo, forse troppe cravatte sbagliate, l' argenteria che sparisce (non son
solo ladri di stelle e di jazz). C' è veramente da perdersi nella poetica di
Conte, nel suo esotismo da cartolina illustrata, con l' ironia velata di
angoscia, dove alla fine un bar come il Mocambo diventa il limbo delle anime
perse, dei Forrest Gump come il protagonista di «Sparring partner»: «È un
macaco senza storia, dice lei di lui, che gli manca la memoria in fondo ai
guanti bui. Ma il suo sguardo è una veranda, tempo al tempo e lo saprai». Per
concludere riporto alcuni frammenti di un’intervista: Lei è considerato uno dei più alti rappresentanti della nostra canzone
d’autore, ma quali sono i suoi preferiti tra i cantautori italiani e gli
artisti internazionali? «In cima alla
piramide Enzo Jannacci. Fuori Italia: Stevie Wonder e Charles Aznavour». La musica, la letteratura e l’arte di fine
Ottocento e inizio del Novecento sembrano una costante fonte d’ispirazione per
lei. «È proprio in quel periodo che è
nato il “Modernismo” a cui mi onoro di appartenere». Sembra a lei congeniale il
film “Midnight in Paris” di Woody Allenin cui un uomo dei nostri tempi si trova
catapultato nella Parigi degli anni Venti, frequentata da Cole Porter, Ernest
Hemingway e Pablo Picasso. «Allen avrebbe dovuto fare il film più lungo per
farci restare più tempo in quel mondo». CHIARA PASSARELLA
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