“ISOLATE AND MEDICATE” (2014) Seether (Sudafrica)
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LA FOTO DELLA SETTIMANA a cura di NICOLA D'ALESSIO
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433. RECENSIONI 2014 di Sky Robertace Latini
“ISOLATE AND MEDICATE” (2014) Seether (Sudafrica)
“Carino”
è l’aggettivo che per primo mi viene in mente
ascoltando questo ottavo album
dei sudafricani Seether. Niente è fuori posto, è proprio un album carino. Un
insieme ben conformato di Nirvana con 10 chili in più (“See you at the bottom”
e “Keep the dogs at bay”); i Foo Fighters ricoperti da una patina di serietà
(“Words as weapon”); una spolverata di Stoner-rock annacquato (“My disaster”); i
Beatles più innocui (il ritornello di “Suffer it all”); i Green Day leggermente
smorzati (“Same damn life” e “Watch me drown”) e un po’ di folk-rock americano
ovattato (“Nobody praying for me”). A volte mancano i bei riff, e quando ci
sono, a loro non segue il mordente adatto. Niente di così terribile, il disco
si ascolta bene e alla fine, se si decide di ascoltarlo più volte, può essere
canticchiato quasi naturalmente. Però il livello globale non è memorabile, pur
riuscendo a scrivere senza perdersi; il lato orecchiabile non diventa
commerciale né in senso positivo né in senso negativo; la commercialità
positiva sarebbe quella di fare canzoni che colpiscono e afferrano
immediatamente senza essere troppo catchy, mentre quella negativa sarebbe
quella di scrivere brani di semplice presa che però avrebbero un pregio di
apparenza estetica forte, e mancano anche questi. Insomma un disco musicalmente
leggerino e rassicurante, un po’ troppo rassicurante per un disco rock, che
solo a sprazzi diventa Metal (“Suffer it all”). “SEE YOU AT THE BOTTOM”
dimostra che per realizzare qualcosa di forte la band ha bisogno di essere poco
personale e di allacciarsi al vecchio grunge. Se Kurt Cobain fosse ancora vivo,
avrebbe la pancia e canterebbe qui come un vecchio marpione. Stesso ritmo medio
e similari vocalizzazioni prolungate con inserti urlati. “SAME DAMN LIFE”
diverte con i suoi falsetti; un po’ di riff compatti e un po’ di schitarrate
vivacizzano l’ascolto. Coretti adolescenziali e minima allegria di base. “SUFFER
IT ALL” è il brano dalla più alta carica metallica, anche se il ritornello
addolcisce la riffata sulfurea, e buffo
che proprio nella traccia più grintosa il ritornello abbia un’aria beatlesiana.
Un bel pezzo tonico in mezzo a situazioni fin troppo morbide. “NOBODY PRAYING
FOR ME”, che è la song meno dura, è però una delle migliori perché apre ad
un’aria più sognante e di polvere di terra da cavalcare, come un cowboy su
spazi aperti. Se pure non c’è il guizzo, preferisco opere come questa piuttosto
che certe melensaggini o parti rappate. Ripeto, niente è fuori posto ed è così
perché tutto funziona; chi ama particolarmente questo genere ci si troverà
bene, alla distanza piacerà poiché è facilmente fruibile senza perdersi in giri
sonori inutili. Godetevi l’ascolto e
lasciate perdere questa recensione.
---
“REEDEMER OF SOULS” (2014) Judas Priest (U.K.)
Ricordo,
a chi si accinge a leggere questa recensione, che qui sto analizzando un album
dei Judas Priest, e sottolineo JUDAS PRIEST; è, nel metal, come se, in musica
classica, io stessi valutando Beethoven. Ogni critico si porrà nella situazione
difficile di eliminare da sé tutte le aspettative e i preconcetti che
immancabilmente cadono su un lavoro di un mito. Sembra automatico andare a
cercare a quale disco, della lunga discografia iniziata nel 1974, questo
assomigli. Si cade in questo tranello perché i Judas son bravi a non
allontanarsi da sé, cioè a rimanere personali, anche risultando sempre
differenti. In realtà tal nuova opera è la naturale conseguenza di quello
uscito appena precedentemente nel 2008, cioè si percepisce come “Reedemer of
souls” sia la prosecuzione di “Nostradamus”, unendovi qualcosa del vecchio
passato. Da che lo si denota? Dal fatto di preferire una certa introspezione
piuttosto che una agguerrita verve di deflagrazione. Complice la non più
virtuosa voce di Halford, che se avesse provato a sforzarsi sarebbe apparsa
stanca per età e per super-uso. Ma questa difficoltà noi la subodoriamo, solo
perchè conosciamo l’antica potenza della sua ugola. Invece sul disco ciò non
traspare, che la bellezza della timbrica e l’interpretazione sono sempre
magistrali e gustosamente affascinanti; e stranamente egli fa anche minor uso
di sovraincisioni che pure gli avrebbero giovato, proprio per la minore
estensibilità. Sembra, al contrario, che Halford sia contento, con la scusa di
una vocalità pseudo malata, di potersi dedicare a canzoni maggiormente
introspettive e di atmosfera, senza basare tutto sulla potenza (ricerca delle
atmosfere, per altro sempre presente nella storia dei Priest). L’introspezione
dell’opera “Nostradamus” è interna anche a questo disco, non vi però sono gli
sbrodolamenti di allora, i brani prendono la solita forma canzone a loro più
confacente. Brani migliori: “HALLS OF VALHALLA” è una song velocizzata piena di
epicità, forse la composizione
maggiormente legata all’antico stile della band. Due parti separate di assolo liquidissimo. “SWORDS
OF DAMOCLES” è tra le song più narrative come sensazione, pur non mancando la
durezza necessaria. “MARCH OF THE DAMNED” è strana in quanto sembra per sound e
per cantato, una canzone di Ozzy Osbourne, anzi, sembra proprio che la voce sia
quella di Ozzy. Ma è un’ottima e scorrevole song. “DOWN IN FLAMES” è cadenzata, ma la linea
vocale determina un’altra performance morbida e accattivante. “HELL & BACK”
inizia con la stupenda soft voice del nostro, e poi fa dondolare il corpo con un middle-time
ossessivo. “COLD BLOODED” è magica, con quella leggerezza che talvolta i Judas
ci hanno fatto sentire senza vergogna. E’ forse il pezzo migliore dell’album,
tra cambi di velocità e linea melodica morbida senza essere una canzone calma. “SECRETS
OF THE DEAD” è uno dei pezzi maggiormente ragionati e seducente. La ritmica e
il tono, con l’assolo alla Deep Purple, ricordano leggermente alcune sonorità
di “Perfect strangers” degli anni ’80. “BATTLE CRY” è una veloce song che
poteva stare in “Ram it down” del 1988 e dintorni. Ma in parte rappresenta
proprio la differenza tra una Power song dall’ugola d’acciaio che fu, e quella
odierna che non potendo acutizzarsi, lascia che sia la song a vivere di vita
propria. “BEGINNING OF THE END” è forse la ballata che fa pensare all’album
“Sad wings of destiny” del 1976. Una melodiosa performance di Rob di cui ci si
innamora subito. Spero che il titolo non sia profetico, la fine arriverà ma
forse altri due album ce li possono lasciare; se saranno come questo mi
andranno bene. Brani minori: “Dragonaut” dovrebbe essere un brano eccezionale
perchè brano d’apertura , cioè quello che deve dare impatto. Invece risulta uno
degli episodi meno interessanti poiché troppo derivativo; nella linea cantata
si avvicina alle cose già prodotte dalla band stessa in passato. Come anche la
title-track per via della sua ritmica troppo familiare. “Metallizer” si dedica
ad un cantato che sa un pò Bruce
Dickinson e un po’ di Mercyful fate; mentre “Crossfire” usa un ipnotico
rifframa Hard Rock come tornando agli anni ’70. Si, va bene. C’è un po’ di
Stained Class, dicono tutti. Però io ho voglia di metterci anche un po’ di
“Point of entry”, dove la durezza lasciava il posto alla scorrevolezza
orecchiabile, ma nei brani migliori di quell’album, quelli dalle ampiezze
aeree. E ancora c’è da accennare all’album “Angel of retribution” del 2005 per
una piccola nota: in quel disco pieno di audace ferocia, l’episodio considerato
tra i migliori fu invece l’elegante “Worth fighting for” ben lontana dal resto
del lavoro di cui faceva parte, e se ci fate caso, si tratta proprio dello
spirito che invece pervade quasi totalmente “Reedemer of souls”. Se Halford ha
abbandonato la cattiveria, la sonorità è costantemente compatta e
sufficientemente pesante. La furia oggi ce l’hanno i Primal Fear e i Grave Digger,
che si rifanno pedissequamente ai Judas Priest. Se i Judas non hanno più quella
pulsione, ne hanno un’altra, che adesso meglio si confà a dei maestri del
metallo tradizionale. Se vogliamo, l’ospitata di Halford dell’anno scorso nella
song “Lift me up” dei FiveFingersDeathPunch ci aveva dimostrato che la grinta
selvaggia è ancora nel cuore del “God of Metal” Halford; ma egli ne ha ormai
profusa così tanta che non deve dimostrare più nulla. Se qui manca qualcosa è
la frizzantezza del semplice rock’n’roll che altre volte era presente. Per
quanto mi riguarda il voto non è basso, se devo fare un paragone, mi viene in
mente come lo spirito sia lo stesso di quello offerto dai Deep Purple l’anno
scorso; è sbagliato usare l’aggettivo “dimesso”; io direi che è corretto
utilizzare la parola “adulto”, nel senso di musica per adulti, cioè un
carattere non adolescenziale. Ma adesso entriamo nella verità, siamo oggettivi!
In passato non sempre la capacità della band è stata al massimo; molti brani,
per quanto decenti, non si alzavano sopra la media già da “Stained Class” del
1988. E che dire di alcuni pezzi in “Killing machine” come “Evil fantasies”? E
addirittura in “Point fo entry” la metà è da buttare (“You say yes” è
ridicola). Se non fosse stato per la voce di Halford, non si sarebbero salvate.
Insomma, in questo album non ci sono
reali cadute di tono come lì; esso possiede un suo particolare fascino. La voce
di Halford non è più quella di una volta, d’accordo, ma c’è ancora, e c’è con
quel suo afflato da vero rocker. L’album funziona egregiamente, e penso che
davvero sia una bella prova che merita voto alto; hanno cercato la finezza
compositiva e non quella tecnica a tutti i costi. I Judas
cavalcano liberi; lunga vita ai Judas: UP WITH DEFENDERS OF THE FAITH !
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SKY
ROBERTACE LATINI
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