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LA FOTO DELLA SETTIMANA a cura di NICOLA D'ALESSIO
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330. “NOW WHAT ?!” Deep Purple (U.K.) – 2013 di Sky Robertace Latini
Dopo tanti anni (otto
per la precisione), esce un altro disco dei mai stanchi Deep; e si sappia che è
una delle band che più suonano in giro per il mondo, perchè durante il silenzio
discografico hanno comunque sempre fatto concerti (li ho visti a Perugia
quattro anni fa). E l’affiatamento che hanno così raggiunto è ben percepibile
nella nuova opera, di gran lunga più bella delle due sfornate nel 2003
(“Bananas”) e nel 2005 (“Rapture of the deep”), comunque suonate con la stessa
formazione. Gillan racconta infatti che la voglia di pubblicare un album di
brani inediti è tornata volendo suonare
come agli esordi, improvvisando in session strumentali, suonando in studio come
se si fosse dal vivo; e che ciò è stato possibile proprio per i tanti anni
passati in tour. Siamo ormai al diciannovesimo lavoro dal 1967, e che sono
mutati dal passato si sente, anche se le vecchie basi affiorano sempre. “A
SIMPLE SONG” inizia con un momento soft
(usato a volte in modo simile anche dagli Iron Maiden), in cui la chitarra
liquida è un bell’intro suadente, continuato da una voce morbida di Gillan,
anche il finale riprende lo stesso tono soffuso. Ma il brano non è calmo,
infatti poi chitarra ritmica e tastiere sulfuree alla Lord (l’ormai compianto)
si accendono corpose, su un middle-time grintoso. L’assolo di tastiere è il
nucleo centrale che ricorda i tempi andati. Ritornello arioso e alla fine brano
di gran temperamento. “WEIRDISTAN” mantiene lo stesso ritmo medio, ma anche qui
il pezzo si mantiene sempre tonico. C’è il giro chitarristico orientaleggiante
alla Blackmore, stilisticamente ben conosciuto, ma il ritornello alza la verve
emozionale del brano. Ancora tastiere in primo piano nell’assolo, e subito dopo
pure la chitarra solista s’immette per un suo breve momento. “OUT OF HAND”
termina il trittico iniziale dell’album, che risulta interessante, e prosegue
con ritmo medio. Inizia come le tastiere dei Queen di “Innuendo” ma risultano
l’unica l’affinità; infatti il riff è classicamente Deep. Contiene un pathos
che è più efficace nella linea melodica piuttosto scura della strofa, piuttosto
che nel ritornello è un po’ leggerino, anche se l’insieme è assolutamente
ottimo. “HELL TO PAY” è forse il brano più tipicamente Deep Puple stile anni
’80, ed è anche la canzone più dinamica e dallo spirito rock’n’roll. Divertente
e scorrevole è anche uno di quelli che in concerto diventano corali. L’assolo
di chitarra è Blackmoriano che più Blackmore non si può. Si inserisce
all’interno un intermezzo solistico che riprende sfacciatamente gli standard
dei live anni ’70, accostabile alle caratteristiche di “Made in Japan”, ed è
interamente un momento tastieristico. “BLOOD FROM A STONE” è un blues che si dipana sorretto da
una ritmica soft sorniona molto anni ’70, per poi impennarsi con distorsioni e
toni d’accensione improvvisa nel ritornello. Il basso d’inizio ricorda “You
keep on moving” dell’album dei Deep “Stormbringer” (1974). L’assolo è
tastieristico prima e chitarristico dopo, ma la chitarra infila acuti
aggressivi anche nell’arrangiamento. Un brano d’atmosfera pregno di pathos. “UNCOMMON
MAN” fa molto progressive (persino nella chitarra solista iniziale, fluidissima
e sognante) invece torna ancora l’anima hard anche se per circa due minuti potevano essere gli Yes. Il
giro di tastiere continua a fornire questo tipo di interpretazione (tra gli
Yes e i Led zeppelin di “Achilles last
stand” dall’album “Presence” del 1976) e in effetti non possiamo parlare di puro
Hard rock, anche perché Airey continua a dargli quell’input persino col suo
assolo che è più alla Wakeman che alla Lord. Solo l’assolo di chitarra riporta
a galla lo spirito Deep Purple. “APRES VOUS” è un’altra volta prog
nell’iniziare con le tastiere, ma stavolta si tratta solo di una finta. Al
centro si apre un intermezzo solistico prog-hard sopra una ritmica jazzata che va oltre la
struttura della composizione. “ALL THE TIME IN THE WORLD” esula un pò dallo
stile Deep Purple, per calarsi nei panni del miglior Eric Clapton. Un
blues-soul che smuove il corpo e fa venire la pelle d’oca per la sua classe ed
eleganza. Bravo e caldo, un Gillan in gran spolvero. Il tasterista Don Airey,
già famoso con Blackmore nei Rainbow, è
una delle presenze più forti nella strumentistica del disco. Lo si capisce soprattutto nella traccia di
inizio; in “Hell to pay” e in “Blood from a stone”, ma la sua anima di “organo
hammond” e non solo, ridonda in tutto l’album. Tanto di cappello anche al
chitarrista Morse che qui è migliore che negli album precedenti. Che dire? Un
lavoro di altissimo livello, si predilige più o meno sempre il tempo medio, ma
non si sente la necessità di velocizzare l’ascolto. Chi si aspetta pezzi quasi
Power come “Highway star” o “Fireball”, sappia che non ne troverà. E non
troverà nemmeno gli acuti famosi del cantante. Ma è tutto così affascinante che
non c’è bisogno di virtuosismi particolari. La tecnica c’è e si sente ma mai
eccessiva; ciò che è stato curato è proprio il song-writing, prediligendo la
forma strutturale che le parti solistiche così da non sbrodolare. Gli
intermezzi nei brani (per esempio in “Hell to pay” o in “Apres vous”) in realtà
escono un po’ fuori dal contesto, ma non esagerano mai, e pur facendo sentire
il loro peso, lasciano equlibrata ogni composizione. Chi se l’aspettava un
disco di tale caratura dopo tanto tempo. Hanno scelto un hard rock tranquillo
ma pieno di feeling. riuscendo a rinnovarsi rimanendo se stessi. Questi
creatori di un genere musicale sanno ancora cavalcare con alta dignità. Sky Robertace
Latini
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