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In questi anni abbiamo corso così velocemente che dobbiamo ora fermarci perché la nostra anima possa raggiungerci. (Michael Ende) ---- A chi può procedere malgrado gli enigmi, si apre una via. Sottomettiti agli enigmi e a ciò che è assolutamente incomprensibile. Ci sono ponti da capogiro. Sospesi su abissi di perenne profondità. Ma tu segui gli enigmi. (Carl Gustav Jung)

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LA FOTO DELLA SETTIMANA a cura di NICOLA D'ALESSIO

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LA FOTO DELLA SETTIMANA a cura di NICOLA D'ALESSIO:QUANDO LA BANDA PASSAVA...
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50. RECENSIONI di Roberto Latini

L’ANIMA E IL SUO DESTINO  di Vito Mancuso  (2007)

Leggendo un testo che vuole parlare dell’ anima, ci si aspetterebbe  un atteggiamento spirituale, ma non è così. Mancuso, nella sua dissertazione, vuole essere molto scientifico, utilizzando anche le ultime teorie, quelle basate sulla realtà subatomica e sulle particele più infinitesimali attualmente scoperte.  Egli è docente di teologia e non so se si basa oggettivamente sui veri studi scientifici, però alcuni concetti tecnici da lui esposti li avevo già letti. Comunque si rifà a ciò che è la materia, ipotizzando che anche l’anima umana sia materia. La cosa è suggestiva, la creazione stessa cercherebbe il proprio miglioramento, come se la materia avesse intelligenza. Non trovo perché essere contrario a questa idea della materia, una materia che si auto-migliora evolvendo dal BIG-BANG fino a raggiungere la vita biologica e poi a formare la mente umana.  Dal fatto che le particelle, dalle molecole in giù, altro non si tratterebbe che di energia e non di materia compatta, Mancuso estrae il concetto che l’energia sarebbe creatrice:  “L’energia è la capacità di produrre lavoro, il lavoro produce la materia, genera quindi massa ordinata da cui anche la vita. La vita è già inscritta nella polvere dell’universo”.  Per lui l’anima dell’essere umano è venuta dal basso, dalla natura, non dall’alto, non da un intervento diretto di Dio:  L’anima non è una misteriosa entità sovrannaturale che giunge dall’alto, ma qualcosa di naturale, come il principio della vita.  Nel concetto di scintilla divina che dà il via al processo creativo dell’universo, si innesta anche il concetto darwiniano dell’evoluzione della vita organica, e poi Mancuso va oltre, infilandoci anche l’evoluzione materiale della mente, dello spirito e dell’anima.  So che la Chiesa non è più contro Darwin, anche se la teoria evoluzionistica va rivista; del resto, dico io, Dio potrebbe anche aver immesso l’anima nell’ultima trasformazione animale che ha visto passare l’uomo preistorico alla fase “Sapiens”. Ma se anche l’anima si fosse creata da sola, sempre secondo uno specifico disegno di Dio, per un cristiano ben poco cambierebbe.  Ma Mancuso prosegue la sua idea dicendo che persino l’anima continua a evolversi, raffinandosi nel tempo verso un miglioramento della sua qualità:  “Il segnale dell’avvenuta vittoria dell’uomo sulla necessità naturale sta nella spiritualità attestata dalla creazione artistica e, ancor più, dall’esperienza etica della gratuità e della giustizia, la creazione più alta”.  E il male? Ecco cosa dice:  “Nell’uomo c’è anche il piacere del male, ma si tratta di uno stadio parassitario, lo stadio primo è la logica interiore della natura di ordine; relazione; armonia”.   Per Mancuso insomma il male è legato ad una imperfezione dovuta ad errori della natura.  Che l’anima si perfezioni evolutivamente fino a non voler più il male mi fa venire in mente quei film di fantascienza in cui gli extraterrestri sono arrivati ad uno stadio superiore di percezione dal quale contemplano la realtà da un punto molto alto ma anche asettico. E’ la proiezione di uomini che desiderano la “CONOSCENZA TOTALE”, pensandola buddhisticamente come astrazione e lontananza dal desiderio di “male”.  Non sono un esperto, ma credo che Mancuso, volendo rimanere al livello della materia creata, non legga che parzialmente le possibilità della realtà divina. Egli tralascia, abbandona e non tiene presente Dio come persona, quindi esclude suoi interventi trascendentali. Per l’autore del libro, Dio ha infuso il suo spirito sulla materia e poi, come molti hanno pensato prima di lui, si  è ritirato in attesa che il meccanismo facesse il proprio autonomo corso. Quindi l’atto di Dio sarebbe solo un iniziale input; avrebbe agito “…solo mediante un impersonale principio ordinatore”. Ma da cosa lo si deduce ? Né la scienza riesce ad affermarlo, né tale teoria significa automaticamente una presa di distanza da parte di Dio. Che il Creatore abbia dato vita ad un meccanismo evolutivo non possiamo escluderlo, ma se anche fosse così (e non mi pare una eresia), non vuol dire un obbligo all’aut-aut. Questo tipo di evoluzione può benissimo convivere con la presenza attiva della persona di Dio, del resto egli sarebbe onnipotente, e se prevede che serve un intervento diretto per i suoi piani, perché no?  Per Mancuso invece, senza spiegare bene il perché (ci prova, ma per me senza riuscirci), credere nelle potenzialità della materia venuta da Dio, determina l’esclusione di Dio come interlocutore continuo, e così facendo va anche contro il catechismo della Chiesa. Cosa vieta a Dio di agire qui ed ora col suo essere ? Mancuso esclude a priori questa possibilità e quindi non è esaustivo.  Mettendosi in tale posizione Mancuso non è cattolico pur affermando di esserlo. Varie cose lo provano, ma una su tutte:  “Il concetto di risurrezione della carne appare teoricamente inconsistente”.   Siccome l’eternità esclude il tempo, l’eternità escluderebbe anche lo spazio, e quindi un corpo carnale non può esistere, perché se va da Dio, e Dio è solo spirito, l’uno e l’altro staranno insieme senza avere un fisico materiale. A me sembra voler mettere limiti ai poteri divini, infatti se Dio vuole con sé un corpo di qualcuno, essendo onnipotente ci riesce.  S. Paolo dice: “Se non c’è resurrezione dai morti, allora vana è la nostra fede”.      Roberto Latini


“THE VISITATION”    Magnum  (2011)

In passato questi inglesi Magnum mi hanno fatto sempre l’effetto di un gruppo con spunti interessanti, ma sempre realizzati in modo piuttosto sonnolento, con poca energia. Sarà che sono invecchiato, sarà che sono più bravi loro, stavolta quello stesso tipo di musica, i Magnum la esprimono in maniera più viva e rock.  L’album parte con tre brani di livello, secondo canoni class-metal piuttosto corposi e poliedrici, poi dal quarto brano si cambia verso un AoR orecchiabile, più semplice e meno duro. Il risultato? In entrambi i casi colpiscono nel segno, in modo fresco, senza mai annoiare e senza cadere in composizioni troppo scontate. Forse la voce a volte risulta come già sentita, ma si riprende con l’evolversi del brano, riuscendo a dare l’emozione giusta.  “BLACK SKIES” apre l’album facendo pensare ad un lavoro LedZeppeliniano, soprattutto nell’arrangiamento e nel riff chitarristico. Invece è l’unico pezzo che nell’album va in questa direzione, ma la forza che emana è imponente e sanguigna. “DOORS TO NOWHERE” si avvicina invece alla tipologia dei Rainbow post Ronnie. E’ un sound magico con un fievole tappeto tastieristico sulle parti soft che si alternano a quelle più dure dove è il riff chitarristico a dare la carica.   Al centro, il pianoforte spiana la strada al bell’assolo di chitarra posto appena dopo. “THE VISITATION” non presenta assoli, ma al centro si apre in un breve acquerello sonoro delicato e simil-progressive che, contrapponendosi alla parte cantata più rock, ne fa un brano estremamente piacevole oltre che interessante. “SPIN LIKE A WHEEL” inizia soft con una espressività un po’ stantia, ma si riscatta con l’avvio del ritmo, in un crescendo leggero ma molto frizzante. Il brano scorre senza intoppi fluendo egregiamente, e la parte meno cantata si inerpica magicamente in una atmosfera aerea.  La tastiera e la chitarra, poi il piano, introducono su ali delicate “FREEDOM DAY”, che da soft si fa più accesa, ma mai veramente veloce. Tende ad una certa maestosità sebbene appena accennata. I primi due brani di apertura sono i migliori: “Black Skies” segue lo stile dei Led zeppelin senza la voce di Robert Plant, e “Doors to nowhere” quello dei Rainbow senza la chitarra di Blackmore. In effetti si sente la mancanza di virtuosismi chitarristici, ma la voce di Catley è particolare, anche se a volte sembra quella di Gianni Morandi (vedi soprattutto “The last frontier” ); lo è soprattutto in alcuni momenti e passaggi, che suonano caratteristici ed efficaci. Carina “Wild angel” che ricorda un po’ gli anni ’70 degli Styx; dei Boston e degli Angel. Troppa roba in un unico pezzo ? Però appunto troppe influenze in un unico brano, e quindi poca originalità. Il lato Aor di questa band, dal lato compositivo fa impallidire gruppi come i Toto, anche se la tecnica non sembra la medesima.. Non si tratta di un album quadrato e chiuso in schemi precostituiti dove si sono studiati solo riff azzeccati. Si sente invece l’amore per la composizione, davvero qui gli artisti hanno avuto qualcosa da dire.  ROBERTO LATINI


SONO UNA DONNA
Joumana Haddad

Nessuno può immaginare
quel che dico quando me ne sto in silenzio
chi vedo quando chiudo gli occhi
come vengo sospinta quando vengo sospinta
cosa cerco quando lascio libere le mie mani.
Nessuno, nessuno sa
quando ho fame quando parto
quando cammino e quando mi perdo,
e nessuno sa
che per me andare è ritornare
e ritornare è indietreggiare,
che la mia debolezza è una maschera
e la mia forza è una maschera,
e che quel che seguirà è una tempesta.
Credono di sapere
e io glielo lascio credere
e avvengo.
Hanno costruito per me una gabbia affinchè la mia libertà
fosse una loro concessione
e ringraziassi e obbedissi.
Ma io sono libera prima e dopo di loro,
con loro e senza di loro
sono libera nella vittoria e nella sconfitta.
La mia prigione è la mia volontà!
La chiave della prigione è la loro lingua
ma la loro lingua si avvinghia intorno alle dita del mio
desiderio
e il mio desiderio non riusciranno mai a domare.
Sono una donna.
Credono che la mia libertà sia loro proprietà
e io glielo lascio credere
e avvengo.

E’ una composizione forte. Chi scrive è donna, e la donna è l’elemento dirompente,  quello in cui essere, in cui realizzarsi. Haddad mi fa vedere quanto forte sia sapere chi si è.   La sensazione che ho ricevuto da questa poesia è però la forza dell’individualità che vedo esprimersi in due sfaccettature: una legata all’essenza dell’essere donna, cioè, specificatamente, altro dal maschio. L’altra invece legata all’universalità dell’individuo in quanto essere umano. Se nel primo caso viene fuori la reazione di chi si percepisce e si autocolloca in una categoria, in quanto ancora “oppressa”, e quindi diviene un urlo non solo del proprio Io, ma un urlo anche socio-politico, nel secondo caso invece ci può essere una interpretazione più ampia, dove l’urlo può venire assunto da chiunque debba cercare la propria libertà espressiva vitale individuale, quindi si trasforma in un messaggio ancora più universale.  E infatti io ho sentito una vibrazione dal mio intimo, che mi ha fatto udire anche il mio bisogno di “avvenire” (verbo essenziale per la composizione, e infatti ripetuto due volte dalla scrittrice). Ognuno di noi è un mondo che desidera realizzarsi. Vale per tutti, donne e uomini, il fatto di non voler essere proprietà di nessuno, e inoltre “Nessuno sa…” cosa c’è davvero nel cuore delle singole persone, e così nessuno deve essere giudicato. Noi tutti siamo liberi “…prima e dopo di loro; con loro e senza di loro…”…. “loro” inteso come l’altro fuori di noi.   Naturalmente non dobbiamo dimenticarci che l’autrice ha intitolato la sua poesia “Sono una donna”, e quindi non si può prescindere dallaspinta creativa iniziale, motivazione personale della Haddad. In un mondo dove ancora il maschio pensa inferiore la donna, e non solo nel mondo arabo (vedi certa mentalità occidentale), la forza ribelle della sua anima deve ancora doversi esprimere in questi termini, in opposizione alla grettezza del potere maschile che ovunque tende a tornare indietro nel tempo senza voler fare discorsi emancipati. Ma la grandezza della composizione sta nel farsi universale attraverso il suo linguaggio; se a “donna” sostituissimo la parola “oppresso”; “carcerato politico”; “schiavo”; “perseguitato”; “emarginato”, la poesia avrebbe ancora un senso. Nella realtà, anche senza eventi specifici, l’essere umano può sentirsi oppresso e schiavo. Ma è proprio questo il punto, la donna è molte volte ancora oppressa; carcerata; schiava; perseguitata, e dove un popolo è senza libertà, lì ancora di più la donna lo è, poiché sempre costretta a sottomettersi agli uomini di quel popolo; quindi due volte oppressa.  Ma siccome molte sono le situazioni umane di oppressione; schiavitù; emarginazione, ecco che facilmente ci si può immedesimare con le sensazioni sottolineate con la poesia; è per questo che tutti possono capire tale momento artistico, tutti possono capire “Sono una donna”. Dicendo che queste sensazioni di sofferenza possono essere vissute empaticamente da tutti, non voglio rischiare di sminuire la situazione della donna e la forza con cui la Haddad si esprime come donna, dando ad altre donne la dignità di individui che tante culture vogliono deprezzare. Ma è proprio perché a tutti può essere dato di venire “chiuso”, la comprensione di ciò che dice la Haddad non è ermetico, anzi è chiaro. E, inoltre, aver descritto la donna con categorie vissute da tutti impone ancora di più l’obbligo a non emancipare e sottomettere la donna, che se l’uomo maschio non vuole essere “sospinto” o “ingabbiato”, neanche la donna lo vuole…ed è bene che egli lo sappia! Bellissima poesia.   Roberto Latini


1 commento:

Anonimo ha detto...

Sottoscrivo in pieno quanto detto da Roberto Latini e voglio esprimere il mio apprezzamento per la sensibilità dell'autore del post. raramente un uomo riesce a cogliere così in pieno l'essenza di una poesia scritta da una donna. Grazie! Chiara Passarella

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IN QUESTI ANNI ABBIAMO CORSO COSÌ VELOCEMENTE CHE DOBBIAMO ORA FERMARCI PERCHÈ LA NOSTRA ANIMA POSSA RAGGIUNGERCI

(Michael Ende)

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A chi può procedere malgrado gli enigmi, si apre una via. Sottomettiti agli enigmi e a ciò che è assolutamente incomprensibile. Ci sono ponti da capogiro, sospesi su abissi di perenne profondità. Ma tu segui gli enigmi.

(Carl Gustav Jung)