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In questi anni abbiamo corso così velocemente che dobbiamo ora fermarci perché la nostra anima possa raggiungerci. (Michael Ende) ---- A chi può procedere malgrado gli enigmi, si apre una via. Sottomettiti agli enigmi e a ciò che è assolutamente incomprensibile. Ci sono ponti da capogiro. Sospesi su abissi di perenne profondità. Ma tu segui gli enigmi. (Carl Gustav Jung)

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LA FOTO DELLA SETTIMANA a cura di NICOLA D'ALESSIO

LA FOTO DELLA SETTIMANA  a cura di NICOLA D'ALESSIO
LA FOTO DELLA SETTIMANA a cura di NICOLA D'ALESSIO:QUANDO LA BANDA PASSAVA...
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47. RECENSIONI di Roberto Latini

Top Jazz 2010  -  Selezione discografica di Filippo Bianchi (anno 2011)(http://spiritualitaearte.blogspot.com/2011/01/31-top-jazz-2010_14.html).

Rispetto alla selezione uscita lo scorso anno, questa la sento come più tradizionalista. Come ebbi già a dire, non sono un esperto di Jazz, ma in questa raccolta sento un sound che mi è familiare. E se è familiare a me, probabilmente significa che sta in un solco già ben strutturato da anni. Questo non significa che siano composizioni di basso livello, anzi, io percepisco una forte espressività emotiva e artistica. Personalmente mi è piaciuta molto di più, e vi ho ravveduto complessivamente anche maggiore virtuosismo ed energia, sebbene con tematiche di minore variabilità tra un brano e l’altro, rispetto ai brani caratterialmente molto distanti tra loro che erano stati scelti nella selezione precedente.
“A NEW LEADER” (Tinissima Quartet) è un brano movimentato; la forza solista della tastiera fluisce attraverso una ritmica basso-batteria che è l’ossatura portante. Ma i fiati, che all’inizio guizzano in una ritmica secca  e netta, incedono poi, dopo la tastiera, in un assolo molto ben costruito con una verve elettrica e nervosa.
“SENTIERI SMARRITI” (Paolo Damiani) si sviluppa in un quadro dall’eleganza d’altri tempi esibendo una melodia che si segue senza fatica, ma con una ritmica pianistica incalzante che dinamizza il tessuto sonoro. Una certa lieve malinconia che poi si trasforma in una piccola insofferente urgenza interpretata con classe dai fiati.
“OVER LINES” è di uno stile che a me pare proprio molto comune, eppure è bellissimo seguire l’iter virtuosistico di questo ritmo veloce e saltellante. Dai fiati alle tastiere viene prodotto una lungo torrente di note che fresco scorre tra la batteria e il basso che non si limitano ad accompagnare, ma fanno la loro parte costruttiva partecipando attivamente con incisività da protagonisti.
Similarmente al brano appena descritto, “BLACK SPIRIT” vive all’interno di uno stile classico molto sfruttato, anzi questo ancor di più. Anch’esso un brano veloce, forse anche più veloce di “Over Lines”. La tromba è però più fresca e di carattere. Nella parte centrale la tastiera e la batteria si sostituiscono a vicenda: dove la batteria fa il suo assolo , la tastiera diventa ritmica accompagnando quella. Infine il pianoforte diventa solista, ma molto brevemente prima che il pezzo si concluda.
“PRAZKE JARO” (The Unknown Rebel Band) è un soave pezzo che possiede anche un ritmo di marcia ma che non perde mai la sua dolcezza. E’ un brano ballabile. Una composizione corale che penetra l’ascoltatore con suoni caldi, lenti ma non troppo. La melodia non è stravolta dalle stratificazioni sonore che si intrecciano con gusto. Non c’è virtuosismo estremo, bensì una costruzione strutturata in maniera non idonea a troppo libere improvvisazioni, ma non per questo minore nella bellezza solista sprigionata dalla tromba.
“LA BALLATA DELL’AMORE CIECO” (Danilo Rea) vive anch’essa di melodia ben riconoscibile nelle sue variazioni sul tema. Un pianoforte delicato che si ispira molto direttamente al blues e quindi molto nelle mie corde (io poi dopo la chitarra amo il pianoforte). Non vi sono altri strumenti ma nulla manca e nulla serve in aggiunta. La semplicità e l’allegria iniziale divengono man mano una spirale più complicata e meno sorridente, instillando una punta di tensione, prima delle note finali.
“DEEP BLUE” (Roberto Cecchetto) è forse per me il brano che in questa corsa uditiva ho preferito. E’ un brano Jazz rock, prima di tutto e quindi a me più confacente, e poi c’è la chitarra, il cui suono mi fa rabbrividire (ho già detto che è il mio strumento preferito, del resto sono un rockettaro). Nel progressive rock si possono sentire anche accenni di Jazz simile a questo. La ritmica è incalzante e sostenuta. Il sassofono sembra voler smorzare i toni, poi invece si avvolge intorno alla struttura ritmica con dinamica enrgia, ed è lasciato a lui il compito terminare il brano. L’unico vero episodio che io ho vissuto come sperimentale è stato “Bela Lugosi” di Gallo & The Rooster + Gary Lucas, molto interessante ma che non va oltre l’esercizio stilistico.  In conclusione un disco da apprezzare, soprattutto per uno come me avvezzo al rock e poco incline a perdermi nel jazz. Di solito non amo le raccolte poiché non è detto che contengano i brani migliori dei singoli album, e poi mi piace sapere come è l’intera opera album per capire meglio l’artista. Ad ogni modo per chi ascolta poco Jazz la raccolta è una risorsa; e comunque da questo ascolto mi è venuta la voglia di avere anche l’intero album da cui sono tratti ognuno dei brani citati, in particolare quello di Roberto Cecchetto.       Roberto Latini

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SOUNDS OF VIOLENCE   Onslaught (2011)
Se quest’anno gli Artas hanno prodotto un thrash innovativo, i britannici Onslaught hanno invece optato per un thrash tradizionale senza novità stilistiche. Ma la qualità c’è, ed infatti le canzoni sono belle, energiche e corrosive. Ottimi suoni, e ben costruite sia le parti canore, sia le ritmiche che le sferragliate chitarristiche.L’album si apre con un brano poco personale (“Born for war”) che potrebbe essere di una qualsiasi thrasher band, ma che comunque è un buon inizio; ivi si può segnalare una batteria mitragliatrice. Fa parte di quei brani minori che però assolutamente non annoiano. 
THE SOUND OF VIOLENCE” è una track dal ritmo cadenzato per un headbanging fottutamente divertente. Gli assoli sono lineari e piacevoli.
“REST IN PIECES” cambia varie volte ritmo e il doppio tono di voce si alterna caratterizzando il brano con efficacia. Assolo classico senza fronzoli ma essenziale.
“GOHEAD” è leggermente più oscuro degli altri brani, e, se possibile, più violento. Perfetto il ritornello che da solo vale metà della composizione. L’assolo di chitarra risulta meno standardizzato rispetto ad altri presenti nel disco.
“HATEBOX” è veramente un incisivo vomito quasi death/black metal; con le sue variazioni è forse il pezzo più originale della partita.
“ANTITHEIST” risulta essere la composizione meno immediata ma proprio per questo piuttosto qualitativa, ad ogni modo il cantato si assimila facilmente. Leggermente orientaleggiante, ottimo il groove e ottima l’espressione solista della chitarra.

Ciò che si sente, è davvero il suono della violenza. Però la cattiveria è espressa soprattutto dalla parte cantata che usa una voce corrosiva, il growl, fortunatamente, è solo accennato. In realtà anche gli accordi, tutti, sono pregnanti ed estremamente duri. I ritmi sono solo raramente velocissimi, ma sempre pressanti.  Nota curiosa è la presenza, nel lavoro, anche di una splendida cover dei Motorhead, “Bomber” suonata con lo stesso chitarrista dei Motorhead, il signor Campbell. Roberto Latini

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MORTE DI UN ROCKER…Gary Moore

L’anno scorso è deceduto il cantante metal Ronnie James Dio. Quest’anno è toccato al grande chitarrista irlandese Gary Moore, più giovane di 10 anni, il quale ha perso la vita per un attacco cardiaco a soli sessant’anni, in Spagna. Moore è nato il 4 aprile 1952 a Belfast. Ma a sedici anni, dopo un attentato dinamitardo in cui per poco non perde la vita, si trasferisce a Dublino lasciando il nord-irlanda. Nella sua vita ha suonato vivendo periodi musicali diversi: periodo “Progressive jazz-rock” coi Colosseum nel periodo fine sessanta e inizio anni settanta; periodo “Hard Rock” coi Thin Lizzy (nei soli anni ’74 e ’79) e poi da solista alla fine dei settanta e negli anni ottanta; periodo “blues” (riprendendo le sue prime influenze giovanili) nel periodo solista anni novanta. Senza contare la collaborazione con Andrew Lloyd Webber (famoso per varie colonne sonore come “Jesus Christ Superstar” e “Cats”)  per una versione rock orchestrale incentrata su Paganini; o il periodo pop-beat di fine anni novanta, molto criticato.  Quindi un musicista dai molti interessi, che però ha dato il meglio di sé nell’ Hard Rock (energico “The wild frontier” del 1987) e nel Blues (gustosissimo “Still got the blues” del 1990).  Nota caratteristica: suona la chitarra come un destrimane, ma lui è mancino. Nonostante una voce non eccelsa ha sempre cantato quasi tutti i suoi pezzi e con buona interpretazione.  Io l’ho visto dal vivo nel lontano 1984, nel “Monster of Rock” londinese. Il metal di Gary non aveva vibrazioni troppo dure ed estreme, per cui credevo di dover assistere ad uno spettacolo piuttosto freddo, ed invece fu una sorpresa, scoprii un uomo in grado di tenere il palco benissimo come frontman, mantenendo inalterata nella cura anche la tecnica chitarristica. Prendeva pose da vero rocker e lo faceva con grande naturalezza dando un eccitante spettacolo visivo oltre che strumentale. Un vero flirtare col pubblico, immettendo forza e fascino, e la sua voce non è calata mai, lasciando stupefatti anche come vocalist. Quella sera suonarono anche altri, ma solo il concerto di Ozzy arrivò allo stesso livello qualitativo.  Tale comportamento sul palco, in effetti, sottolineava la forte personalità umana di Gary Moore, che per questo lasciò i Thin Lizzy dove c’era l’altrettanto esuberante Lynott, bassista-cantante e leader. Non potevano coesistere due essenze umane tanto caratteristiche, ma i due comunque rimarranno sempre amici (Phil Lynott morìs nel 1986 per overdose e Gary ne soffrì molto). Il bassista dei Deep Purple disse di lui: “Non ho mai conosciuto un chitarrista più dotato di talento e più difficile da trattare. Così testardo, così impulsivo, poco diplomatico e allo stesso tempo geniale. Con lui ho vissuto grandi momenti musicali, ma andarci d’accordo è praticamente impossibile. Maledetto pazzo irlandese”.  Ma la sua forte personalità lo fece anche interessare a problematiche socio-politiche, a tal punto che qualcuno lo accusò persino di simpatizzare per l’organizzazione terroristica “Irish Republican Army”. Nel 1987 il brano “The wild frontier” diceva: “…ricordo le strade della mia città, prima che arrivassero i soldati; ora barricate e mezzi blindati, stiamo annegando in un mare di sangue e le vittime non potranno mai più cantare Forty Shades of  Green. ( “Forty S.of Green” è una canzone di Cash del ‘61 che divenne un inno dei nazionalisti irlandesi). Oppure nel 1989 “Vedo un’altra lega di cojoni in parata in cerca di un agnello sacrificale” (“Speak for yourself”), e ancora  “Sei soltanto un numero nei loro piani militari; ti fanno marciare in uniforme e con menzogne ti insegnano solo ad uccidere” (“After the war”).  Forse per gli abusi di alcol del passato, l’uomo degli ultimi tempi era ingrassato e poco in forma. Chissà…ma per uno come me, è morto un artista di altri tempi, un rocker col blues nel sangue, il puro spirito di una anima in pena.

Sospiro di Roberto Latini

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“THE ENIGMA OF LIFE”   Sirenia – (2011)

Non siamo di fronte ad una grande opera d’arte (come quelle di Nightwish o di Epica), ma comunque davanti ad un lavoro onesto e ben riuscito. Si tratta di un symphonic metal confezionato con cura dove si sentono anche spunti interessanti e due episodi stupendi, veramente di valore.  Diciamo che rispetto ad altre band, sia le parti sinfoniche  che quelle metal sono piuttosto limate.  La voce femminile è la solita espressione classico-gotica che si differenzia dalle altre per una lieve lamentosità niente affatto negativa e per la tonalità più acuta. “THIS DARKNESS” è un brano che col ritornello è solare sebbene le altre parti siano leggermente più dure. Entra subito nella mente senza per questo cadere nella banalità. Una voce roca maschile nella zona centrale del brano riequilibria la soavità della voce. La versione cantata in spagnolo mi piace di più (bonus track).  “WINTER LAND” ricorda i brani più orecchiabili dei Nightwish di Anette, molto criticati dai fan di quel gruppo, e paragonati ai suoni dei Coors, quindi considerati non symphonic. Ma a me non dispiacquero affatto (i Coors mi piacciono) e questa è assolutamente godibile, una buona canzone,tra le migliori del lotto.  “A SEASIDE SERENADE” inizia con un riff Judaspriestiano un po’ alleggerito in cui si inseriscono accordi tastieristici. E’ qui, come nel brano di apertura “The end of it all”, che la voce assume connotati “piagnucolosi” ma affascinanti (chissà perché mi fanno venire in mente i vecchi Warlord degli anni ‘80). L’intermezzo quasi valzeristico è accompagnato da un coro elegante per poi lasciare subito il posto ad una voce maschile simil growl, che però non è violenta, rimanendo inserita tra tastiere soffici e pianoforte frizzante.  “DARKENED DAYS TO COME” inizia con la voce maschile ma poi si ammorbidisce con la voce della cantante che inserisce subito un ritornello “acchiappante”. Il pezzo rallenta con la voce soft di lei; anche qui si trova il coro maschile.  Ecco il primo dei due pezzi migliori: “FADING STAR”. Il coro qui è più importante che nelle altre canzoni mentre la voce solista diventa secondaria. Si percepisce maggiore raffinatezza e ampiezza. L’assolo di chitarra è l’elemento più metal.  L’altro pezzo di valore, anzi la composizione migliore, è la title-track “THE ENIGMA OF LIFE”. Una dolcissima ma potente ballata. Canto soave e pieno di emozionante pathos, con un ritornello commovente e straziante, accompagnato dal pianoforte. Ricorda, per vibrazione emotiva (dal punto di vista compositivo non ci assomiglia), “Meadows of heaven” dei Nightwish. Cori e chitarra danno quel tocco di epicità contornando la voce per una maggiore intensità.  Le parti corali liriche cantate di solito solo da voci maschili (e talvolta unite a quelle femminili) danno un senso epico interessante, è un valore aggiunto e inserito adeguatamente anche se mai prevalente. La voce di Aylin appare spesso raddoppiata, migliorando l’effetto sonoro ma non facendo capire la sua vera capacità canora. Credo che possiamo parlare di un disco che vale la pena di ascoltare e riascoltare. Non ci sono cadute di stile e non sono una mera fotocopia dell’esistente.    Roberto Latini

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“UBIK” – Romanzo di Philip K. Dick – 1969

L’autore di Ubik è l’autore di storie famose conosciute da tutti, come “Minority Report” da cui è stato tratto lo splendido film diretto da Spielberg  e “Il cacciatore di androidi” (1968) da cui il film “Blade runner”. Scrittore di fantascienza, egli ne è considerato uno dei più importanti. Con problemi legati alla sua infanzia per problemi familiari, e continuati in età adulta con la tossicodipendenza per uso di anfetamine, la sua letteratura è pregna di concetti riguardanti le relazioni e l’essenza di cosa sia un essere umano. “Ubik” è un romanzo surreale in cui morte e vita si confondono, e dove la realtà irreale e la irrealtà reale non hanno confini; tutto è sempre suscettibile di reinterpretazione. L’ambientazione è futuristica (1992), e vi si narra di una ditta che dispone di “inerziali”, persone che posseggono poteri paranormali di neutralizzazione, poteri che neutralizzano appunto i poteri paranormali attivi. Le aziende come questa sono necessarie in una società civile dove gli individui con telecinesi, telepatia e altri tipi di poteri paranormali vengono ingaggiati per lo spionaggio industriale e commerciale. Ma gli uomini di Runciter, così si chiama il loro principale, il capo dell’azienda, subiscono un attentato dinamitardo sulla luna, e da quel momento è il caos. Infatti ogni oggetto regredisce, prima con un meccanismo di invecchiamento della materia (per esempio le sigarette si polverizzano) ma poi cambiando lo schema, non è la materia di cui sono fatte le cose a regredire, ma sono gli oggetti e l’ambiente stesso a cambiare: compaiono automobili e indumenti di un tempo passato, ascensori antichi e radio al posto di schermi. Si arriva fino al 1939, ma la storia delle persone avanza, il signor Runciter è morto nell’attentato e tutti vanno al suo funerale, come se il tempo indietreggiasse mentre loro sono sempre gli stessi, solo che cominciano a morire come consumati dall’interno. Fino a che scopriranno che essi sono già morti, sospesi in una animazione all’interno del Moratorium, uno dei centri di riposo per i morti, dove già Runciter aveva messo la moglie defunta. He già! Perché invece Runciter è vivo, l’unico sopravvissuto, e comunica a John Chip, il personaggio principale della storia, di averli messi lui nel Moratorium, e che sta parlando loro dall’esterno. Allora chi è che distrugge tutti uno per uno? E siamo sicuri che Runciter sia ancora vivo? E la regressione che senso ha? L’autore abbatte ogni certezza e costringe il lettore a rivedere ogni volta l’angolo da cui fissa gli eventi descritti.  I suoi interessi di letterato per la filosofia e la psicologia sono forti. L’autore è attirato dallo gnosticismo, e il significato e il valore della conoscenza sono sempre analizzati in qulalche modo dalle sue opere. Nella sceneggiatura di Ubik, scritta dallo stesso Dick nel ’74 per un film mai realizzato, egli fa dire a Chip: “Se tutto sta regredendo nel tempo, perché il televisore non è regredito in pezzi di plastica?…dopotutto quelli erano i suoi componenti, era stato costruito con quelli, non con una radio precedente. Forse ciò conferma una teoria filosofica: quella degli oggetti ideali di Platone, gli Universali che in ciascuna classe sono reali. Le forme precedenti devono proseguire in ogni oggetto. Il passato è latente ma sempre presente. Capace di tornare in superficie non appena l’ultima impressione, a causa di qualche malaugurato incidente, svanisce nel nulla. Platone affermava che qualcosa sopravviveva al decadimento, qualcosa di interiore che non è suscettibile di deterioramento. Il corpo finisce e l’anima vola da un’altra parte. Lo spero sul serio perché allora potremo incontrarci ancora tutti quanti”. Ma “Ubik” cos’è? A cosa si riferisce il titolo? Dal punto di vista pratico sarebbe una sostanza capace di far tornare la realtà dal tempo passato a quello attuale, o di rinvigorire il fisico in deterioramento, lo si somministrerebbe con una bomboletta spray. Si tratterebbe insomma di ioni negativi che incrementerebbero l’attività protofasonica, la quale manterrebbe l’energia dei corpi in sospensione animata nei moratorium. Simbolicamente invece è per Dick una specie di essenza spirituale divina che mantiene le forme universali.  “Io sono Ubik. Prima che l’universo fosse, io sono. Ho creato i mondi. Ho creato le forme. Io sono il verbo. Sono chiamato Ubik ma non è il mio nome. Io sono. Io sarò in eterno” (cap. 17).  Nonostante fossero gli anni ’60, la scrittura non mi è dispiaciuta, sebbene non sia stilisticamente tra le modalità mie preferite, piuttosto scarna ed essenziale. La presenza di Ubik avviene tramite flash pubblicitari per tutta la durata del racconto; una trovata originale che testimonia come già in quegli anni la presenza di reclame nei media fosse insistente. L’idea di un mondo pervaso da telepati mette un po’ paura, ma Dick pare credere che la natura se crea un problema, pensa anche alla soluzione (gli inerziali) bilanciando le realtà in un equilibrio globale. Siamo nel 1992, per noi già passato, dove gli elettrodomestici di casa propria, e persino le porte, si attivano solo inserendo monetine…niente solidarietà, se non puoi pagare non puoi usare nulla, quindi non puoi vivere o mangiare (anche i frigoriferi si aprono previo immediato pagamento anticipato). Quindi, se la natura pensa le soluzioni, la causa dei problemi sono comunque gli uomini. Un Dick pessimista che vede il futuro come una spersonalizzazione estrema, ma forse vi vedeva la stessa cosa nel suo presente.   ROBERTO LATINI

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