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LA FOTO DELLA SETTIMANA a cura di NICOLA D'ALESSIO
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386. “WARUM?”(PERCHÉ), “HIER IST KEIN WARUM” (QUI NON C’È NESSUN PERCHÉ); IL MALE RADICALE SECONDO HANNA ARENDT di Roberto Rapaccini
L’immane tragedia di
Auschwitz impone una riflessione
sul male. Una prima considerazione spingerebbe a identificare le condotte
criminali dei nazisti con il male radicale. In proposito, Kant,
rifiutando la nozione di male come naturale inclinazione umana, affermava che l’uomo
è consapevole della legge morale e quindi, quando si discosta con la propria
condotta dalla regola, è pienamente responsabile: la colpa è il corollario
della libertà di scelta. Tuttavia, si rileva che il male, nonostante non
integri una naturale caratteristica dell’uomo, è una costante presenza nella
società. Da questo si può paradossalmente dedurre che il male per il singolo è un
fatto contingente, mentre, se riferito all’umanità, ha i connotati dell’universalità.
Premesso questo, il male può essere definito radicale, in quanto è radicato nella collettività umana a
prescindere dalla specifica coscienza morale del singolo. Il male è pertanto un’entità
superiore che si impone all’individuo, a cui sfugge la nozione di male
metafisico, mentre ha ben chiara quella di male operato in concreto. Acquista
in questa prospettiva un tragico significato la risposta che fu data a Primo
Levi, al momento del suo arrivo nel lager, alla sua insistente domanda Warum?(perché):
Hier ist kein Warum (Qui non c’è nessun perché). Questa frase - Qui
non c’è nessun perché - introduce un’ulteriore terribile riflessione che fu
sviluppata dalla studiosa ebrea Hanna
Arendt, ovvero la banalizzazione del male: il male, per questa sua
ordinaria e inspiegabile costante presenza, assume di fatto una enigmatica spaventosa
normalità, di cui è corollario la pessimistica conclusione per la quale il male
non è il prodotto dell’agire di un mostro, ma al contrario ne può essere autore
l’uomo normale, in quanto sussiste una potenziale omogeneità fra chilo compie
e chi lo subisce. Hanna Arendt giunge alla conclusione che il male è l’opera di
un qualunque essere umano, condizionato dai meccanismi sociali nei quali è
inserito. In proposito, Primo Levi menziona l’esempio dei compiti di controllo
e comando che talvolta nei lager venivano imposti ad ebrei nei confronti di
altri ebrei: si tratta di un crimine particolarmente odioso poiché si fanno diventare colpevoli le vittime
stesse. Inoltre, i nazisti al processo di Norimberga cercarono di discolparsi
proclamandosi passivi ingranaggi della macchina dello sterminio, cioè meri esecutori
di ordini: questo, secondo Hanna Arendt, confermerebbe che i gerarchi nazisti
erano dei mostri, mentre gli esecutori erano uomini normali. Tuttavia non si
deve dimenticare che obbedire equivale ad appoggiare, anche se non tutti hanno
le potenzialità per essere eroi e praticare una resistenza attiva (come notava
don Abbondio il coraggio non ce lo possiamo imporre), o rifiutarsi di obbedire mettendo in atto una resistenza passiva.
Le fabbriche della morte infatti furono caratterizzate dall’impersonalità dei
singoli comportamenti analoga a quella delle grandi burocrazie nelle quali il
singolo spesso non è cosciente del significato del suo parziale contributo, la ‘parcellizzazione’
delle condotte come nelle catene di montaggio, la più spinta gerarchicità. Paradossalmente,
da questo punto di vista, Auschwitz presenta i tratti della società moderna,
nota Arendt. Se si porta alle estreme conseguenze questa teoria il male è un
fardello che pesa su tutta l’umanità, e su ognuno in quanto membro del
consorzio umano. Il lager inoltre non sembra avere una finalità specifica se non
quella di essere un luogo di ‘disumanizzazione’; per questo, secondo Hanna
Harendt, il lager ha solo il fine
concreto di plasmare un’umanità diversa,
analogamente a quello che si propongono le ideologie totalitariste. Infatti, se
l’umanità non subisse questa spersonalizzazione, si opporrebbe al totalitarismo.
Hanna Arendt partendo dall’analisi del lager come società umana elabora un
concetto di ‘male radicale’ molto più articolata di quella kantiana, che
consente anche di comprendere fenomeni complessi come gli elementi della
società moderna e la genesi del totalitarismo. ROBERTO RAPACCINI
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