DRIVING TOWARDS THE DAYLIGHT - Joe Bonamassa (U.S.A.) - 2012
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LA FOTO DELLA SETTIMANA a cura di NICOLA D'ALESSIO
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264. RECENSIONI 2012 di Sky Robertace Latini
DRIVING TOWARDS THE DAYLIGHT - Joe Bonamassa (U.S.A.) - 2012
Siamo all’album
numero 13. Ma di lui non ci siamo ancora stufati. Nemmeno ora che in parallelo
suona nella band di rock duro insieme al mitico ex-Deep Purple Hughes (i
BlackCountryCommunion, che sono alla terza uscita in questo stesso anno). Sono
solo cinque i brani inediti, gli altri tutti cover, ma ogni momento di
pregevole fattura, tutti di pura energia e causa di dondolamento della testa. Tra
i brani composti da Joe, la title-track, “I got all you need” e queste: “DISLOCATED
BOYS” apre l’album con un blues di grande effetto. Caldo e quadrato, dove ritmo
e voce hanno un peso ben maggiore della chitarra. C’è un ponte rarefatto
centrale che è la calma prima della tempesta solista dell’assolo breve, ma
polveroso il giusto. “HEAVENLY SOUL”
incalza con un ritmo ballabile e fluido con una verve più poprock ma senza
cadere di dignità. Ricorda un po’ le cadenze degli ZZ Top o anche dei Lynyrd
Skynyrd, con una pulizia maggiore e un songwriting piuttosto riuscito. La voce
tende alla sofficità mantenendosi fresca e dinamica. La ritmica sembra voler
portare automaticamente ad un assolo frizzante, che infatti arriva pur se
anticipato da un chitarrismo acustico preparatorio e molto azzeccato. Assolo
che presenta anche un pizzico di jazzismo. Episodio strepitoso. “SOMEWHERE
TROUBLE DON’T GO” scoppietta di hard rock elettrico dal gusto southern.
Ritornello accattivante e incisivo, poi gli assoli di una certa vitalità. “Lonely town,
lonely street” è una cover di Bill Withers, ottima versione. Vive di un riff ripetitivo corposo e middle-time
pesante. Un Rock blues molto hard. Arrangiato con quell’incedere colloso stile
Cream di sessantiana memoria ripreso nei settanta anche dai Deep Purple. Un
pezzo che non gioca su fraseggi svolazzanti ma fa sentire tutto il peso della chitarra
più ruvida con tastiere d’annata in sottofondo. Qui gli assoli
chitarra/tastiera si affacciano nella seconda parte e vivono di vita propria
donando quella sensazione antica di chi sapeva darci dentro. Importante accennare a “Who’s been talking”,
che è la cover del mitico bluesman nero anni ’50 Howlin’Wolf; un omaggio
assolutamente doveroso. Nota: nell’album suona anche il chitarrista degli
aerosmith Brad Whitford. Rispetto all’album di un anno fa (“Dust bowl”) appare
leggermente più freddo, ma la classe non è acqua, anzi, cola una certa grinta e
la solita tecnica. In realtà cola anche un po’ di metallo, che i rivoli di durezza
traspaiono senza pudori. Sky Robertace Latini
***
HE STORY OF LIGHT -
Steve Vai (USA) - 2012
Questo è uno dei
più eclettici chitarristi metal; e
proprio per questo è il mio preferito. Lo adoro. Album numero otto. “VELORUM”,
anche se comincia con un riff Heavy, non è un brano metal. E’ si dinamico con
molti passaggi e inserti, ma vi si inseriscono molte cose differenti, anche una
chitarra dolce, svisate jazz e caratteristiche progressive. La struttura si
accende con accelerazioni e si calma in un dialogo continuo; gli stravolgimenti
sono solo ipotetici, in quanto il pezzo alla fine risulta un corpo unico. Anche
questa è una traccia strumentale, ma è la più bella ed energica dell’album. “GRAVITY
STORM” è un metal rockeggiante dallo spirito settantiano, molto Hendrixiano.
Contiene una certa epicità, per quanto stravagante. Non si gioca sulla velocità
ma la chitarra sa farsi liquida e virtuosa quanto basta. “RACING THE WORLD” è
forse il brano più normale ma non per questo è minore. E’ facilmente fruibile
perchè possiede una struttura lineare. Il ritmo è leggero ma sostenuto, e
supporta un assolo solare con una nota di serena allegria. “NO MORE AMSTERDAM”
è un dolcissimo pezzo cantato da due voci: quella maschile di Steve e quella
femminile di Aimee Mann. Non è affatto commerciale perché ricco e ricercato. Sa
tantissimo di progressive-rock. “SUNSHINE RAINDROPS”è anch’esso un brano che
non contiene stravaganze, come “Racing the world”, infatti è fresco e scorre in
modo limpido lasciando comunque una traccia intensa e personale. “John the
revelator” e “Book of the seven seas”, cover gospel, si uniscono in un superbo
momento musicale molto corale e forsennato dal punto di vista strumentale. Una
personalissima interpretazione dei due pezzi storici, riuscendo però a non
stravolgerne l’essenza nonostante le dissonanze chitarristiche spinte e gli
effetti elettrici. Un ottimo esempio della genialità di Steve. Tra gli episodi
minori la title-track per il fatto che non ha un inizio memorabile, tutt’altro,
sembra solo un intro non entusiasmante, molto prog, e senza caratteristiche
particolari. Poi però diviene qualcosa di differente quando entra l’assolo che
da solo vince ogni reticenza nell’ascoltatore. Sa di jazz ma anche,
stranamente, dell’italianissimo Pino Daniele (ma in fondo Pino ha suonato
spesso una musica poco italiana). Il pianoforte accompagna la frizzantezza
dolce della chitarra sguaiata e scivolosa, dal suono acuto. Brano strumentale
dove la voce è soltanto un chiacchiericcio femminile noioso. In passato Vai ci
aveva abituato anche a cose più pazze, ma rimane uno stravagante del suono. La
sua chitarra è sempre liquida e predilige lo spruzzare in faccia con schizzi
impertinenti. Non è un proliferare di idee sempre allegre, quanto invece
ironiche ma anche disturbanti e un po’
morbose.
Sky Robertace Latini
***
“MELTING
CLOCKS” Yossi Sassi (da Israele) - 201
Il chitarrista
degli Orphaned Land si propone in un
album solista non irrestibile, che però contiene spunti interessanti e alcuni
brani intensi. Pur risolvendosi in un songwriting non sempre all’altezza, e non
utilizzando le atmosfere ricche della band di provenienza, l’album è un lavoro
che sa offrire idee buone. Per la maggior parte sono composizioni strumentali. “DRIVE”
è un canonico pezzo chitarristico strumentale, però elegantemente piacevole e
tonico. Molto liquido, dai suoni puliti e dal ritmo soffice senza essere una
ballata, con guizzi freschi e ariosi. I leggeri inserti orientali lo
arricchiscono di un certo fascino. Possiede una certa multiforme dinamicità. “NUMBER’S
WORLD” vive di un senso descrittivo fluido con iserti orientaleggianti belli ma
non sempre presenti. La voce appare appena, la chitarra ha una distorsione
molto pacata, e però il tutto contiene l’anima rock. “MELTING THOUGHTS” è
invece basato sulla linea vocale. Una bella voce femminile che con la sua linea
vocale dà un tono pop-soul-blues. Di raffinata fattura chitarristica e canora
insieme, la canzone è dolce e rarefatta.
“ANOTHER DAY” è finalmente un pezzo hard, quasi psichedelico con un
assolo però nitidamente Heavy elettrico. Uno strumentale di carattere. “SIMPLE THINGS” contiene una chitarra giocosa
piuttosto hard, mentre la parte cantata è l’unica dell’album che ricorda il
gruppo di cui Sassi fa parte. Brano ipnotico e atmosferico. Rispetto agli Orphaned Land c’è molto poco
orientaleggiamento, c’è, ma con leggerezza e sporadicamente. Sempre rispetto
alla band madre, non è alta la tipicità Progressive, pur predente. Le buone
cose disseminate qua e là non bastano a farne un ottimo disco. Vi si trovano
varie influenze anche ben sfruttate. Alcune sonorità sono molto mediterranee
(“Fields of sunrise”), e quando viene accostato il jazz, lo si sfiora soltanto.
C’è del blues (“Sahara afternoon”), del folk (“Sunste”) e raramente il Metal.
C’è del riempitivo (“Ain’t good enough”) e in ognuno di questi episodi si
possono trovare variabili un po’ scontate. Un prog-rock (talvolta hard) meno
progressive del normale. Insomma, alla fine nulla a che fare con gli Orphaned
Land che sono di tutt’altro spessore. Lavoro inutile? Non direi, ma è solo per
coloro che amano andare a rimestare nei ripostigli in cerca di cose particolari
(e i brani che ho segnalato lo sono). Sky Robertace Latini
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