“XXX” Asia (dalla Gran Bretagna) - 2012
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LA FOTO DELLA SETTIMANA a cura di NICOLA D'ALESSIO
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252. RECENSIONI 2012 di Sky Robertace Latini
“XXX” Asia (dalla Gran Bretagna) - 2012
Il trentesimo anniversario di carriera
il gruppo lo festeggia con un nuovo disco in studio. Quindi non uno stare con
le mani in mano, usando live o
raccolte, ma lavorare e produrre; e il nuovo impegno compositivo (che va letto:
“Triple X”) gioca le sue buone carte. “TOMORROW THE WORLD” è la traccia che
inizia l’album e lo fa non con un attacco maestoso, bensì con un impasto dolce
che però presto si tramuta in un bel ritmo beatlesiano. Un brano frizzante e
delizioso; di ampio respiro. Contiene molti elementi, dalle tastiere Europe
alla “The final countdown”, ai cori rarefatti, alla chitarra stile Yes, in un
classico afflato alla Asia. “FAITHFUL” è un brano morbido e avvolgente che si
avvale di una linea vocale suadente e dal feeling emotivo passionale. Un che di
Abba si assaggia, ma verso il finale, il ritmo veloce e l’assolo corposo
aumentano tonicamente il pathos dando un maggior senso rock. Inutile la
versione orchestrale che sta alla fine dell’album, non aggiunge nulla al brano.
“I KNOW HOW YOU FEEL” usa una tastiera dal suono alla Supertramp, ma tutta la
struttura li ricorda; e in tal senso sentire anche il basso. Bel ritmo e
bell’arrangiamento. Il carattere è quello del brano precedente (“Faithfull”)
con un pizzico di brillantezza in più. Nella versione acustica, presente
anch’essa nel disco, c’è uno stupendo assolo di chitarra non distorta. “FACE ON
THE BRIDGE” è forse il pezzo più bello. Si percepisce una tastiera che è stata
usata anche da Baglioni in “E ancora la pioggia cadrà” dall’album “E tu come
stai” del … ; invece è una composizione pulsante e fortemente rock, vicina a
certi Rush (per come possono gli Asia). Chitarra di Steve Howe che nel finale
ha voluto dare di più. “No religion” purtroppo non posso metterla tra i brani
migliori perché l’accento del ritornello suona troppo simile a “Don’t fear the
reaper” dei Blue oyster Cult. Peccato, perché il resto è particolarmente
gustoso e dà tono all’album essendo una delle tracce più hard rock. Da
segnalare “Al gatto nero”, il cui titolo è proprio scritto in italiano. La
segnalazione non riguarda l’elemento musicale in quanto si tratta di un
rocketto leggero che non lascia il segno; la particolarità è invece quella di
usare frasi in lingua italiana nel ritornello: “Tell me where you going to now,
I’m going down to find AL GATTO NERO. Mi sento fortunato si si è vero. Via
della luna quattro quattro zero”. Una curiosità che mi ha fatto sorridere, anche
per l’accento straniero che il cantato possiede. Il fatto che si usi il termine “delizioso” fa
capire che tipo di musica siano gli Asia. A me la band ha fatto sempre uno
strano effetto. E’ classificata come Prog-rock, ma per loro il termine
Progressive è un parolone. A parte il primo album omonimo del 1982, che fu un
vero colpo di genio artistico, originale e pregno, dove l’orecchiabilità era
forte ma mai banalmente commerciale, tutto il resto della discografia gravita
intorno ad un songwriting troppo leggero e spesso diluito, dove si predilige il
catchy alla ricerca ispirata. Ma nello stesso tempo la loro versatilità li
rende così accattivanti e tecnicamente preparati che non si può fare a meno di
apprezzarli, perché comunque riescono sempre ad imprimere energia. Inoltre in
ogni album colpiscono nel segno con tre o quattro song di livello. Se mettiamo insieme un sacco di roba,
mescolandola, formiamo gli Asia: Supertramp;
Yes; Alan Parsons Project (qui per esempio in “Reno”); Blue Oyster Cult (quelli
dal sound più commerciale); Toto e tutto l’AoR; Beatles; Europe del periodo
meno hard; Rush e persino Abba. Molte volte, durante l’ascolto, mi pare di star
cadendo (o scadendo) nel pop e nella musica leggera. Pur se alcuni componenti
della band hanno avuti rapporti con gli Yes e altra musica seria, quelle
sonorità non trovano posto di eccellenza nel sound che gli Asia ci hanno
abituato a sentire. C’è classe e maestria, ma molte volte non convincono.
L’eleganza nella band è tutto; a volte, più che la sostanza, pare contare la
forma. E ciò si percepisce anche in questo lavoro dove spesso si utilizzano
riff scontati e molto sempliciotti. Addirittura si scade nel poco dignitoso
stile Easy Listening. Comunque, stranamente, gli Asia mi attirano sempre e non
mi stanco di infilarmi nel loro feeling. Non male, ma mi rimane il dubbio
riguardo il loro effettivo valore artistico.
Sky
Robertace Latini
***
“THE DEVIL’S RESOLVE” Barren Earth (dalla Finlandia) - 2012
Un gruppo di forte impostazione progressive, in alcuni
casi poco metal, che sa emozionare e trovare un alto livello espressivo. Voce
pulita e growl si alternano inserendosi con precisione nel tessuto compositivo.
Non mi piace solo quando un brano parte col growl lineare appena comincia una
traccia, pare un artificio inutile. “PASSING OF THE CRIMSON SHADOWS” è
perfettamente Progressive con atmosfera ariosa e delicata nonostante la
presenza di growling e momenti ritmici intensi. La voce growl è il ritornello e
ci sta benissimo perché è la musica intorno a dargli la giusta dimensione. Nel
momento più soft basso e pianoforte permettono di imbastire un passaggio magico
che anticipa l’inserimento di una seconda parte dal crescendo duro che alza la
tensione dove growl e blasting introducono l’assolo. “THE RAINS BEGIN” è splendida, non per niente
è anche il brano scelto per il video ufficiale. La linea vocale a due voci
sembra rifarsi alla sonorità di Simon and Garfunkel con la stessa classe del
duo famoso. In realtà non si tratta di un pezzo acustico, infatti c’è anche
growl e distorsione, ma la raffinatezza è massima, e l’aria è allegra. E’
presente anche una tastiera anni ’70 (stile Lord). “AS IT IS WRITTEN” inizia con suono
cornamusa, ma passa subito alla tastiera progressive. Invece è una canzone dal
riff sabbathiano/stoner di sicuro effetto, scuro e polveroso. Ma il resto degli
strumenti smorza la durezza senza comunque che venga abbandonata una nota di
tensione. Quando questa parte pare terminare, si fa largo un pianoforte
virtuoso che si pone ad intro della seconda fase strumentale con una ritmica
più dinamica e fresca, un classico momento di vero ed eccitante progressive più
rock che metal, fino all’assolo tastieristico stupendo, sorretto dai riff
dell’inizio. “WHITE FIELDS” percorre
inizialmente invece la strada del puro metal con spirito più pesante anche se
con sonorità non durissime. Ma è un incedere ossessivo e la voce vive della
stessa atmosferica ossessione. Nella seconda parte una vocalità morbida si
contrappone al riff secco ma rimane lo stesso tono forte. C’è molto della band
Opeth. “WHERE ALL STORIES END” è un pezzo corale con alcune velleità di
pesantezza ma che non diventa mai eccessivamente duro, anche quando entra in
gioco il growl e la ritmica si fa più eclettica. Tastiere alla Yes e assolo chitarristico
di buona fattura piuttosto tradizionale. Un lavoro molto interessante per
pathos e songwriter. Le recensioni lo pongono nel Death Metal, ma se ce n’è è
solo qualche schizzo qua e là, per il resto è puro Progressive, e neanche tanto
metal. Ma elegante e stupendamente affascinante. Si tratta del prodotto di un
supergruppo poiché i membri provengono da band come gli Amorphis; gli
SwallowTheSun ; i Moonsorrow; i Mannhai e i Kreator (io conosco solo
quest’aultimo, peraltro buonissimo). Sono alla seconda loro uscita discografica
(la prima è stata del 2010). I testi
parlano di guerra; inquinamento; cupidigia eccetera. Solita roba per una band
seria come questa. In una intervista al tastierista Martenson (rivista “Rock
Hard”) viene fuori che gli piacciono gli inglesi Yes e gli italiani PFM, e tra
le righe di questo disco si sente (non è sempre esplicito). Sky
Robertace Latini
***
“URD”
Borknagar (dalla Norvegia) - 2012
Uso di cantato growl e blasting ritmico ma non
possiamo chiamare questa musica Black Progressive Metal, avendo connotati
prettamente Progressive con solo
venature Black. La band viene considerata estrema, ma a me pare lontana dal
sound dal quale i componenti provengono; ad ogni modo il chitarrista stesso
rivela di non voler definire la propria musica Black Metal. “ROOTS”
inizia con blasting e growl, ma c’è anche un che di epico nei cori. Il
brano è relativamente duro ma i cambi di ritmo sostengono suoni morbidi che vincono sulla percezione della velocità,
apportando una atmosfera ariosa in cui il Progressive è la matrice principale.
Soprattutto poi nella seconda parte con il tipo di acustico e di voce pulita
molto ricca di emotività. “THE BEAUTY OF
DEAD CITIES” è il pezzo più magico e bello del lotto. Il cantato quasi falsetto
ricorda gli Yes, l’atmosfera comunque è quella dei gruppi progressive rock
degli anni ’70 che si rifacevano agli ultimi anni ’60. Fascino antico senza
eccesso di vintage. Una canzone molto aperta e luminosa che sa entrare in modo
fresco in testa. Totale assenza di sonorità Black a differenza del resto
dell’album. “THE EARTHLING” inizia in
modo intimista e soft, però vira in un leggero crescendo verso la distorsione e
suoni sofficemente affilati dove si fa posto una voce roca (non troppo growl)
fino a incrementare il ritmo che scurisce il feeling. Del cantato è però
soggetto sempre la voce pulita, che fa venire in mente i System Of A Down. Una
vera perla di piacere. “THE PLAINS OF
MEMORIES” è uno strumentale dai toni pacati in cui pianoforte e violini creano
l’atmosfera soffusa e placida che non può dirsi prettamente metal anche se si percepisce che l’anima lo è, all’interno
della tradizione di sonorità morbide alla Metallica o Apocalypta. “FROSTRITE” è un'altra traccia molto bella.
Il cantato inizialmente, non so perché, mi fa venire in mente l’atmosfera degli
ottantiani Warlord. E’un Hard Rock che, pur utilizzando la tecnica dei gruppi
Black e Death, non è mai violento. “THE
WINTER ECLIPSE” è una composizione dura dal tappeto sonoro Black, che però si
stempera quando viene usata la voce pulita, la quale, accompagnata da tastiere
anni settanta, ricorda anche l’inizio anni ’80 di certa New Wave non metal. Ma
soprattutto nel finale l’espressione diventa progressive. Una opera dal fascino incontestabile e finalmente
una cosa di pregio che in modo personale sa amalgamare l’oscurità con la luce,
preferendo spesso spegnere il buio in favore del sole (cosa dicano i testi non
so, ma la sensazione sonora è questa). Si sente la voglia di creare una realtà
musicale libera e appassionata, del resto il chitarrista Oystein G. Brun
riferisce che suonare come gli AC/DC lo avrebbe annoiato. L’ambientazione dei
testi va verso la natura, legandosi ai concetti filosofici norvegesi,
considerando la classificazione del bene e del male solo un artificio umano non
presente in natura, e pensando alle religioni monoteiste come a qualcosa di
nichilista. La loro prospettiva, come leggo sulle interviste, conduce al
paganesimo per esplicita ammissione del gruppo. Al di là delle loro idee culturali,
la musica è di alto livello. Sky Robertace Latini
***
“BANKS OF EDEN” Flower Kings (dalla Svezia) - 2012
Una opera lunga e corposa. La band è all’undicesimo
album, con grandi frutti sia compositivi che tecnici. “NUMBERS”, che apre il disco, è una suite di
ben 25 minuti e più. E’ molto nutrita di atmosfere ed emozioni, mai perdendo il
feeling con l’ascoltatore. Si sente grande ariosità, scorrendo quando in fluida
energia, toccando anche certe altezze chitarristiche, e quando in rarefatto raccoglimento,
grazie alle tastiere e al basso; e anche la voce sa essere sapientemente
dosata. Si sentono tante influenze,
compresi i Beatles. La chitarra solista sa donare pathos meglio di altri
strumenti qui generalmente non così in primo piano. E’ multiforme, non rimane
in un filo logico, lasciando che le variazioni prendano la loro autonoma
strada, senza che vi sia un vero tema conduttore se non proprio alla fine con
un ritorno a quello iniziale. Eppure la composizione è bellissima e non appare
frammentaria. “FOR THE LOVE OF GOLD” (oltre sette minuti) è un brano soffice e
quasi allegro, ricco da un punto di vista tastieristico, sostenuto da una
acustica ritmica. L’assolo di chitarra distorta e la struttura ricordano in
qualche modo gli Yes (compresi i cori) senza esserne pedissequamente una copia.
Anzi, sul finale l’assolo si fa molto rock. “FOR THOSE ABOUT TO DROWN” (oltre
sette minuti) fa sentire un che di Beatles, e non poco. E’ un pezzo ritmato
(non veloce) leggermente serioso e quadrato, con dei momenti rilassati. “FIREGHOSTS”
(quasi sei minuti) insapora con un vocalismo PinkFloydiano, e magari anche
Bowiano, un feeling elegante e raccolto. Globalmente (quindi strumentalmente)
lo stile contiene anche i Genesis. Tutto molto composto e ordinato. “GOING UP” (cinque minuti) ha un po’ il
sapore degli Yes, e perché no, anche del lato meno leggero degli Asia. Brano
pieno di vitalità con piglio solare ed evocativo. I F.Kings sono riusciti a fare la summa di
tutta la tradizione Progressive Rock storica, cioè ad interpretarne al meglio
la bellezza. Senza mai cercare una vera e propria personalità, essi riescono
però a costruire un viaggio succoso. Non ci si annoia mai. Non si tratta di un
disco derivativo ma di un attingere da fonti conosciute per estrarne acqua
buona, fresca e anche frizzante. Pieno di assoli che però non risultano mai
eccessivi, lasciando molto spazio al songwriting anch’esso mai troppo enfatico,
ma intenso si. Yes; Pink Floyd e Genesis escono dai pori di questo tessuto
sonoro, e anche dell’altro, e non sembra che ci sia timore reverenziale.
L’insieme è accattivante e mai povero di idee, mai indeciso; possiamo parlare
di un approccio forte, nel senso di solido, che dona veramente il piacere
dell’ascolto. Sky Robertace Latini
***
“THICK AS A BRICK 2” Jethro Tull (United Kingdom) – 2012
L’idea di una apparizione solo commerciale, con un
contenitore in realtà vuoto, decade appena inizia l’ascolto. Si percepisce
infatti l’impegno e la vena compositiva ispirata. La voce di Anderson è
affascinante come un tempo e assolutamente caratteristica. “PEBBLES
INSTRUMENTAL” è un ottimo pezzo strumentale folk che risente di velleità da
musica classica. Flauto, fisarmonica e una chitarra dalla distorsione leggera
per un songwriting frizzante e fresco. “UPPER
SIXTH LOAN SHARK” è un brevissimo brano pacato acustico che si basa su di una
linea cantata. “BANKER BETS, BANKER
WINS” è un Hard Rock dal ritmo cadenzato. Segue una linea vocale facile, ma
sostenuta da un arrangiamento raffinato, che usa la chitarra solista elettrica
con una certa intensità. “SWING IT FAR”
è soprattutto una traccia soft, sostenuta dal pianoforte, anche se possiede
momenti hard. Lo stile in realtà esce un po’ fuori dai binari di Anderson,
prendendo invece il modo rock che era degli Who di “Tommy”. “ADRIFT AND DUMFOUNDED” è un country rock che
passa dall’acustico alla distorsione e viceversa, fino poi alla parte centrale
Prog piuttosto dura ed elettrica. “OLD
SCHOOL SONG” riprende il tema già presente nell’album n. 1, ma poi lo
trasforma. E’ ritmato e allegro. “WOOTOON BASSETT TOWN” fa sentire un versante
compositivo delicato e malinconico. “KISMET IN SUBURBIA” usa un riff Hard Rock
che ricorda “Locomotive Breath” che stava su “Aqualung”. “WHAT IFS, MAYBES,
MIGHT-HAVE-BEENS” contiene parte del tema del vecchio album, e passa da un
momento ad un altro con una certa varietà strumentale in contrapposizione ad un
motivo cantato che invece si ripete. Il pezzo si conclude con il tema che dava
il titolo all’album, e con esso si conclude anche l’album. L’album non può essere capito se ascoltato a
pezzi, è un tutt’unico i cui brani sono collegati in modo sensato. Del resto il
primo “Thick as a brick” era una unica composizione lunga due intere facciate
di vinile (in totale quasi 44 minuti), prima volta nella storia del rock. Pur
diviso per tracce, anche questo appare come una opera unica da godere senza
soluzione di continuità. La chitarra
distorta non è mai tagliente e aggressiva ma sempre leggera, per dare un tono
corposo al brano ma non per sovrastare la linea melodica. E l’arrangiamento è
ricco, mai ridondante, lasciando una buona sensazione traccia dopo traccia. Quando gruppi Progressive dell’ultimo
decennio (e qualcosa più) vanno ad abbeverarsi al passato dei settanta sembra
che facciano una opera onorevole, ma poi sentiamo gli Opeth ricopiare elementi
e sensazioni già sperimentati all’infinito e ormai talmente saturi da perdere
l’idea della sorpresa, e i Porcupine Tree appiattirsi man mano che proseguono
nella loro carriera, incapaci di trovare nella loro vecchia acqua, quella
frizzantezza di prima. Poi ecco farsi vive band che in quel passato avevano i
loro fasti, e senza rinnovamento alcuno, riescono a proporre un Prog-rock
saporito. Infatti Ian Anderson è riuscito senza strafare, a creare un bel nuovo
paragrafo di musica, senza alcun bisogno di dimostrare qualcosa…così naturale
appare questo suo lavoro. Di certo
quello storico del 1972 rimane una opera d’arte irrangiungibile, qui invece
manca il colpo di genio. Averlo intitolato “Thick as a brick 2” avrà
sicuramente creato eccessive aspettative. Ad ogni modo non mi sento
assolutamente deluso: il menestrello prog-folk-rock è tornato con tutte le sue
antiche caratteristiche, flauto compreso. Sarà il suo ultimo colpo di coda? Spero
di no. Sky Robertace Latini
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(Carl Gustav Jung)
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