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LA FOTO DELLA SETTIMANA a cura di NICOLA D'ALESSIO
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247. L’INVIDIA: UNO DEI MOTORI DEL CONSUMISMO di Chiara Passarella
Mi è capitato di
leggere un articolo sulla felicità,
consumismo e compulsione al consumo. Tale lettura ha generato in me una serie di riflessioni sul sentimento
dell’invidia insieme a curiosità e interesse per l’approfondimento dell’argomento.
Innanzitutto per fare una corretta disamina credo sia necessario un piccolo excursus sull’invidia
e, per fare ciò, prendo a prestito
alcune riflessioni di Gustavo Pietropolli Charmet, psichiatra e docente di Psicologia Dinamica
all’Università di Milano. Dal punto di
vista del sentire comune, e nell'opinione generale, l'invidia è sempre stata
considerata un vizio tra i più
deplorevoli. La religione cattolica colloca l'invidia tra i vizi capitali, in
diretta opposizione alla virtù della carità. L'invidia è anche definibile come
una passione, un affetto, un sentimento. E in quanto passione è
tradizionalmente legata alla tristezza: "tristezza per i beni altrui"
la definisce San Tommaso. L'invidioso infatti è triste perché il suo desiderio
più profondo e lacerante è quello di sottrarre all'altro i suoi beni per
appropriarsene e goderne al suo posto. A ciò si accompagna in genere la
sensazione, da parte di colui che invidia, che quello che l'altro possiede sia
immeritato. Di qui la necessità, per l'invidioso, non soltanto di soddisfare la
propria brama, ma di provocare la sofferenza, o la privazione, nell'altro.
Questo complesso intreccio di sentimenti viene efficacemente rappresentato
nell'iconografia classica che ritrae l'invidioso come personaggio dai tratti
eccessivi, caricaturali, solitamente impegnato a osservare da lontano, con
sguardo torvo e malevolo, la legittima soddisfazione di qualcuno. È soprattutto
a causa di questo aspetto distruttivo che nei confronti dell'invidioso non
scatta il meccanismo di identificazione e di conseguenza è impossibile provare
compassione. L'invidioso soffre terribilmente, ma in qualche modo la sua
sofferenza viene considerata giusta, una sorta di contrappasso immediato per un
sentire tanto meschino. Anche l'etimologia del termine conferma la radice visiva
dell'espressione: nel verbo “invidere” la particella “in” ha valore negativo,
vale “non”, nell'accezione di “cattivo”. “Invidere” - e quindi “invidiare” -
vuol dunque dire “guardare male”, in un senso molto forte, che equivale a
gettare il “malocchio”: un occhio maligno, appunto, cattivo. A ciò corrisponde
anche la locuzione di uso comune “non lo posso vedere”, indirizzata di solito a
qualcuno verso il quale si prova un risentimento di marca invidiosa: colui che “non
si può vedere” è colui la cui vista provoca uno strazio intollerabile, quasi
una minaccia per la propria sopravvivenza. A prescindere dalle sfumature di
significato che le varie discipline hanno saputo distinguere all'interno di questo
sentimento, si è in genere concordi nel definire l'invidia come il rammarico e
il risentimento che si prova per la felicità, la prosperità e il benessere
altrui, sia che l'invidioso si consideri ingiustamente escluso da tali beni,
sia che, già possedendoli, ne pretenda l'esclusivo godimento. Molti studiosi
sono inoltre d'accordo nell'accomunare in una medesima categoria, quella del
patire, il sentimento dell'invidia e quello della gelosia. Quest'ultima
passione viene però generalmente considerata ammissibile, al contrario della
prima, condannabile in assoluto e mai confessabile se non in una forma lieve e
caratterizzata in positivo che, spogliandola del suo contenuto aggressivo, la
trasforma di fatto in emulazione. Sentimento privatissimo perché, si diceva, inconfessabile e, dunque, non
condivisibile, l'invidia svolge tuttavia il ruolo di detonatore di numerose
dinamiche sociali. D'altra parte, se è vero che ha radici nel profondo - e lo
scavo condotto con gli strumenti psicanalitici non fa che dimostrarlo - è pur
vero che l'invidia si definisce sulla scena sociale in rapporto a un altro,
l'invidiato, e poi al contesto più ampio che è quello che fissa i criteri di
giudizio stabilendo così che cosa è invidiabile e cosa no. Anche per questo il
sentimento invidioso è stato oggetto di studio di diverse discipline. Relativamente all’invidia come uno dei motori
del consumismo, dobbiamo osservare come il sistema economico, nell’attuale fase
di sviluppo, interviene su due fronti. Favorire
la concentrazione dei capitali per consentirne un impiego sempre più
“razionale” (includendo nella razionalità anche la pura speculazione
finanziaria) e contemporaneamente ridurre il potere d’acquisto dei ceti meno
abbienti, compresa ormai una parte del ceto medio. Il sistema economico però
non può rinunciare al volano del consumo: come forzare, quindi, il consumo al di là dei vincoli di bilancio e
di reddito? Si spingono i consumatori all’indebitamento. Non basta quindi insistere
sulla propaganda pubblicitaria che alimenta falsi bisogni, ma diventa necessario
individuare una motivazione che trasformi
il desiderio di consumo in compulsione al consumo. Questa motivazione è stata
identificata nell’invidia sociale, nel rendere intollerabile e squalificante il
confronto con qualcuno che ha qualcosa che il soggetto desidera: l’individuo è
costretto per non stare male a consumare anche al di là delle sue reali
possibilità economiche. Il potenziale danno che il soggetto ne ricava è ampiamente ed in maniera illusoria compensato dal raggiungimento del possesso di
un qualcosa che qualcun altro può
invidiargli, ammesso e concesso che poi, il soggetto stesso non continui
ad essere roso da un’implacabile invidia. Una società competitiva
modella la psicologia dei soggetti in maniera tale da eleggere a principio del
piacere il confronto vincente con gli altri. Nella misura in cui tale confronto
si pone sul terreno del possesso di oggetti, è evidente che esso anima il
desiderio di averne di più rispetto agli altri. In questa ottica, l’oggetto
desiderato attrae irresistibilmente in quanto il possederlo significa,
inconsciamente, giungere ad avere qualcosa che qualcun altro ha (essere alla
pari) e che qualcun altro non ha (essere superiori). La dinamica della
compulsione al consumo si iscrive dunque nel quadro di una società che comporta
una gerarchia di status riferita alla disponibilità di oggetti assunta come
indizio della superiorità o dell’inferiorità individuale. Essa non ha rapporto
con il piacere personale, bensì si articola sul tema del confronto sociale. Si
tratta dunque dell’espressione di una relazione sociale alienata, nella quale c’è
sempre qualcuno che può far soffrire perché ha di più e qualcun altro che si
può far soffrire ponendolo di fronte al fatto di avere di meno. Questo fa capire
facilmente la tensione ossessiva del
desiderio prima dell’acquisto. Non possedendo l’oggetto, l’individuo sa che
qualcun altro già ce l’ha. Circostanze queste che attivano in lui un’invidia
patologica. In quest’ottica si inserisce anche l’insoddisfazione che però il soggetto ricava dal possesso: la tensione
competitiva, infatti, si orienta
immediatamente verso un altro oggetto che manca, che qualcun altro ha. La compulsione
al consumo maschera, insomma, un rapporto sociale distorto dall’invidia e dal
desiderio di mettersi in condizione di liberarsene inducendola in qualcun
altro. Rodere d’invidia nei confronti di qualcuno e far rodere d’invidia
qualcun altro: questa motivazione patologica, che non è certo nuova nella
storia dell’umanità, sembra stia assumendo nella nostra società un grande potere sul comportamento soggettivo. Di
conseguenza, l’aspirazione al benessere materiale, si trasforma in una motivazione distorta, il cui obiettivo
immaginario è giungere a non sentirsi inferiore a nessuno e a sentire che gli
altri soffrono della loro inferiorità. Posto questo obiettivo, gli oggetti, per
quanto ossessivamente desiderati, diventano inutili per quanto riguarda la loro
capacità di produrre un appagamento umano. Essi sono solo lo strumento attraverso
il quale si afferma un bisogno di socialità alienato. Ha scritto Seneca che “povero
non è chi ha poco, ma chi desidera di più”. Sono stata lunga ma se l’argomento ha generato interesse,
potremmo, in futuro, trattare
l’argomento invidia anche dal punto di vista dei filosofi, degli psicologi
e degli psicanalisti. CHIARA PASSARELLA
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