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LA FOTO DELLA SETTIMANA a cura di NICOLA D'ALESSIO
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177. GLI ANNI DELL'ODIO...OGGI di Roberto Rapaccini
Questo
periodo sto leggendo una raccolta di saggi su Pasolini (‘Pier Paolo Pasolini.
Intellettuale del dissenso e sperimentatore linguistico’). Ripensando ai tempi della mia adolescenza durante i quali Pasolini
era molto attivo, tempi fin troppo pieni
di ideologie spesso travisate e banalizzate, lontani dall’omologazione attuale
che lo stesso Pasolini con acuta lungimiranza aveva previsto, mi chiedevo se i giovani
di oggi, cresciuti in un contesto tanto diverso dal nostro, potessero intuire
il clima nel quale siamo maturati. La risposta è venuta dal giovanissimo Gianluca
Rapaccini (frequenta a Milano il V Liceo Scientifico) che ha scritto un racconto ispirato ad una storia vera,
intitolato “Quel tragico mercoledì… 27
anni dopo”. Il suo elaborato è stato
premiato nell’ambito del concorso “’69-’80 Gli anni dell’odio”, un’iniziativa annuale che ha come obiettivo
principale quello di tenere viva la memoria dei tragici episodi di terrorismo
che sconvolsero l’Italia di quegli anni. La storia è una cronaca che riesce a
rendere con straordinaria lucidità il difficile clima di quei decenni. Eppure Gianluca
non ha vissuto allora. Quando la cultura si coniuga con la sensibilità, può
compiere questi miracoli! Di seguito si trascrive lo scritto di Gianluca. Roberto Rapaccini
...27 anni dopo
16.04.12
Parte
1: Il colore della strada (dalla parte di Samuel)
Uscii di casa per l’ora di pranzo e mi
diressi verso Piazza della Repubblica. Quel giorno si scendeva in piazza per i
problemi inerenti al diritto alla casa, e il Movimento Studentesco (MS), di cui
facevo parte, aveva aderito alla manifestazione. Arrivai sul posto ed il primo
che incrociai fu Claudio, mio coetaneo, abitava a Bollate e frequentava
l’Istituto Tecnico per il Turismo. Non ci vedevamo da molto tempo, per questo
ci stringemmo in un abbraccio amichevole. Sebbene fossimo appena
diciassettenni, ci accomunava una forte appartenenza alle stesse idee, idee che
ci avevano spinto lì quel giorno. Era caldo quel 16 aprile. Il sole bruciava
sopra i nostri corpi, sudati, arrossiti, impegnati alla protesta. La
manifestazione pacifica venne scortata per più di un’ora e mezzo, poi i
manifestanti si divisero in diversi gruppi, alcuni di questi si dileguarono,
altri rimasero lì, io fissai il cielo, privo di nuvole. Ciò mi rese possibile
percepire l'ora dalla posizione del sole, erano passate le 4 di pomeriggio e di
lì a poco ci saremmo dovuti dirigere verso l’Un. Statale con una trentina di
militanti del MS. Così facemmo mezz'ora dopo. Camminando ebbi l’occasione di
discutere con gli altri riguardo gli avvenimenti del giorno prima, come lo
sgombero dei cittadini USA a Saigon, in Cambogia, o i venticinque mila
licenziamenti di massa da parte della Volkswagen a Bonn. Nonostante questi
fatti interessassero popoli lontani da noi, condizionavano notevolmente
l’opinione pubblica italiana di quegli anni. Grazie all’esiguo numero di
persone e ad un passo spedito, raggiungemmo piazza Cavour in pochi minuti. La
piazza era splendente e silenziosa, ogni colore veniva esaltato dagli energici
raggi solari, tanto da far saltare all' occhio il nero delle camicie di tre
ragazzi impegnati nel volantinaggio dalla parte opposta della strada. Erano a
non più di 150 metri da noi e ogni tanto si voltavano per vedere se ci stavamo
avvicinando o meno, senza però interrompere la loro attività. Quella che fino a
quel momento era stata una giornata tranquilla, sarebbe cambiata radicalmente
in pochi minuti. Alcuni dei nostri li riconobbero subito. Facevano parte del
Fronte Universitario d'Azione Nazionale (FUAN) e la loro presenza, a nostro
avviso, non era che un pretesto per ''conquistare'' la zona. Tra le nostre fila
si era convinti che i neofascisti, facendo così, imponessero una sorta di
coprifuoco per qualsiasi espressione di antifascismo, intimidendo chiunque non
simpatizzasse per loro e cercando di colpire i militanti di sinistra. Così fecero
anche con noi, ci provocarono con diverse offese ed insulti, sventolando i
volantini in segno di sfida. Indipendentemente da quella situazione, odiavo
quando si veniva giudicati o presi in giro in base ad una posizione, in questo
caso, politica. Quelli che erano lì con me, la pensavano ugualmente; così ci
avvicinammo minacciosi ai tre, che, considerata la differenza di numero, dopo
alcuni tentennamenti, incominciarono a fuggire. Due di loro ci riuscirono senza
problemi, ma il terzo, poiché zoppicava, si rifugiò in una Mini Minor di colore
amaranto, che rifletteva la luce dal suo tettuccio bianco. Così ci riversammo
rapidamente verso l’auto per circondarla e alcuni ne ruppero i vetri con le
bandiere. Claudio ed io ci trovavamo nel mezzo della ressa, intorno alla Mini,
intenti, come gli altri, ad intimorire il ragazzo, che, spaventato, frugava
freneticamente tra gli scompartimenti dell' auto. Poi, all’improvviso, quel
rumore. Quel botto che non avevo mai sentito prima. Si ripeté due volte. Poi
una terza. Il mio cuore si fermò e persi lucidità. La vista si appannò per
qualche secondo e le orecchie cominciarono improvvisamente a fischiare. Poi la
sgommata della Mini mi riportò alla realtà. La vidi andare via velocemente per
via Turati e subito il mio sguardo si volse a terra: Claudio giaceva sull'asfalto
con il viso e la barba intinte in una pozza di sangue. I miei occhi, increduli,
assieme a quelli degli altri, lo fissavano inerme a terra. Lo squadrista aveva
sparato tre proiettili dall’interno della sua auto e uno di questi aveva
perforato la fronte di Claudio. Quando l’ambulanza arrivò non c'era più niente
da fare, era morto un altro ragazzo e aveva solo 17 anni.
Delle susseguenti ore ricordo ben poco:
c’era una gran confusione in città, poiché la notizia fece il giro di Milano in
pochissimo tempo e, sebbene pochi di noi rimasero ad aspettare i soccorsi,
piazza Cavour si riempì di gente curiosa, triste e indignata. Passai la notte
tra mercoledì e giovedì con i gruppi di estrema sinistra a presidiare la sede
de ''Il Giornale'' in piazza Cavour, poiché si era convinti che l'intento di
Montanelli, al tempo suo direttore, fosse quello di riportare, nel quotidiano
del giorno seguente, la tesi che indicava i militanti comunisti come gli
aggressori e gli unici colpevoli. Ricordo confusamente quella notte, avevo
appena perso un amico e in piazza Cavour regnava il caos totale, il sole che la
faceva risplendere se ne era andato ormai da qualche ora assieme al raziocinio
di chi ne aveva distrutto i lampioni, facendola cadere nel buio più totale. Quel
16 aprile 1975 segnò il periodo più triste della mia giovinezza e contribuì a
scriverne uno dei più oscuri della storia italiana. Il mattino seguente mi
svegliai con gli occhi lucidi dalle lacrime e l'istinto di vendicare Claudio fu
più forte di me, tanto da spingermi a scendere nuovamente in strada al fianco
dei miei compagni. Fin dalla prima mattinata si radunò, come deciso il giorno
prima, un corteo corposo in Piazza Cavour, lo raggiunsi giusto in tempo per
seguirlo fino alla sede del Movimento Sociale Italiano (MSI) di via Mancini.
L’atmosfera era terribile. Trovammo una compagine di missini schierati in
strada ad aspettarci, ma a dividerci si era collocata una numerosa squadra di
poliziotti e carabinieri, tra i quali riconobbi mio fratello maggiore,
Francesco. Era entrato a fare parte dell’Arma un anno prima, da quel giorno il
nostro rapporto si era congelato e raramente capitava che ci frequentassimo.
Feci finta di non averlo visto, voltandomi dalla parte opposta, lui fece lo
stesso. I miei occhi si incrociarono con i suoi, offuscati dalla plastica del
casco antisommossa, solo per un attimo, un attimo che durò un' eternità. Lui si
vergognava di me ed io ancor più di lui, ma il caso volle che quel giorno ci incontrassimo
all’incrocio tra Corso 22 Marzo e via Mancini, dove il corteo si accalcò
prepotentemente per poter arrivare alla sede del MSI. In prossimità di
quell’incrocio iniziarono i tafferugli tra noi e la polizia; poco tempo dopo,
il fumo delle molotov e la polvere si erano incanalati tra gli edifici di via
Mancini, la quale assumeva sempre più le sembianze di un fiume in piena, che in
tutta la sua densità, impediva, a chi vi si trovava immerso, di distinguere il
giorno dalla notte. Raccolsi tutta la rabbia che avevo in me e mi scagliai
contro il gruppo di poliziotti in un urlo di battaglia. Mi trovavo lì per
un’idea, un’idea che ritenevo giusta, in quel momento più di prima della morte
di Claudio. Come un lampo mi apparve il suo viso sorridente, poi quel fischio
nelle orecchie. L’odio mi accecò e fu un altro giorno di ordinaria violenza.
17.04.12
Parte
2:
Il peso della divisa (dalla parte di Francesco)
La carta appena stampata mi lasciava
l’inchiostro fresco sulle dita. "Resa di Phnom Penh. La guerra è alla
fine, recitava la prima pagina de ''La Stampa'' il 17 aprile 1975. In secondo
piano, un articolo raccontava la triste vicenda del giorno prima: ''in uno
scontro tra due gruppi avversi, in mezzo ai passanti, un fascista, Antonio
Braggion, ha ucciso con un colpo di pistola un giovane del Movimento
studentesco, ragazzo di diciassette anni, Claudio Varalli, abitante a Bollate,
studente dell'Istituto professionale per il turismo''. Mio fratello lo
conosceva quel ragazzo, mi capitò di vederlo qualche volta, quando veniva a
pranzo a casa nostra. Aveva un animo spigliato e spesso frettoloso, come se
volesse viversi fino infondo ogni secondo della sua vita. Ho sempre pensato che
quell’atteggiamento, comune tra gli amici di mio fratello, così focoso e
talvolta irruente, fosse solo una fase dell’adolescenza, solo una moda per
sentirsi parte integrante del gruppo. Purtroppo i nove anni di età che mi
separano da mio fratello non mi permisero di capire subito quanto fosse
autentico il comportamento di quei ragazzi e quanto fosse potente la
condivisione della stessa idea. Claudio non lo vidi più dopo che Samuel, in
seguito alla mia scelta di entrare a far parte dell’Arma, decise di lasciare
casa, andandosene a vivere con altri quattro compagni del MS. Erano circa le 8
del mattino, la notte l’avevo trascorsa a vigilare sui cortei che si dirigevano
verso piazza Cavour in protesta, ma una nuova giornata di guerriglia sarebbe
iniziata di lì a poco e se ne sentiva già il presagio. Nel bar di fronte al
Comando di via Amedeo 5 era caduto un silenzio tombale. Si potevano percepire
solamente i tintinnii delle tazzine, portate dal barista ai clienti per servire
il caffè, quel giorno, più amaro del solito, che ognuno di noi, fresco di
divisa, era intento a finire, sebbene fosse concentrato su quello che ci
avrebbe aspettato nelle ore seguenti. Si stimava che quella mattina migliaia di
dimostranti sarebbero scesi in strada a protestare e circa duemila tra noi
erano stati scelti per controllare i numerosi cortei che avrebbero occupato le
vie del centro. Quel giovedì, dopo quasi un anno speso nell’Arma dei
carabinieri, per la prima volta, avrei vestito la divisa dell’antisommossa; ero
teso, tanto da non riuscire ad apprezzare il rosso acceso del bagliore, che una
splendida alba stava riflettendo sulle vetrate. Finii di bere il caffè con
estrema fretta e presi una sigaretta dal nuovo pacchetto da dieci di
"Diana rosse". Non fumavo spesso, ma avevo il vizio di sperimentare
tutte le marche di sigarette e qualche volta mi capitava di comprarmi un
pacchetto. Pagato il caffè, uscii dal bar e incominciai a fumare,
incamminandomi verso i camioncini che ci avrebbero trasportati. Assaporai
l’aria come se non lo avessi fatto da anni, mi rivitalizzò e mi diede quel
minimo di tranquillità per godermi l’ultimo tiro di sigaretta, in buona parte
consumata dal vento, e salire sul camion, nel quale alcuni miei colleghi
avevano già preso posto, con tanto di casco e scudo antisommossa. Mi preparai
anch’io e dopo alcuni minuti partimmo alla volta di piazza Cavour, dove la
maggior parte dei cortei si era data appuntamento. Scuole e università erano
chiuse quel giorno e gli studenti, assieme agli scioperanti, si erano uniti
alla protesta, portando la piazza a ritrovarsi colma di gente. Si percepiva un
clima di tensione, forte malcontento ed estrema indignazione. Coi megafoni i
capi-corteo davano indicazioni ai vari gruppi presenti; si potevano facilmente
sentire alcuni cori, che talvolta si accavallavano uno sull' altro, contro il
fascismo e in memoria di Claudio; il ronzio delle voci era incessante e andava
crescendo continuamente man mano che si aggiungevano altre persone all' ormai
unico corteo che si era costituito.
In tarda mattinata il grande corteo si
mosse in direzione di via Mancini, con l’intenzione di assediare la sede del
MSI; alcune camionette lo scortavano da dietro, altri, tra cui quella in cui mi
trovavo io, raggiunsero al più presto quella che sarebbe stata la destinazione
dei manifestanti. In meno di 40 minuti centinaia di persone giunsero
all’incrocio tra corso 22 Marzo e via Mancini, dove si trovarono ad aspettarli
altre centinaia di missini a difesa della sede. Tra le due fazioni, c’eravamo
noi. Le strade, chiuse dalla prima mattinata, erano diventate ora campo di
battaglia, fra i presenti si potevano individuare ragazzi armati di qualsiasi
tipo di arnese: dalle mazze alle chiavi inglesi, dalle bombe carta alle
molotov. Mossi velocemente lo sguardo tra i volti dei manifestanti e, dalla
plastica della visiera, vidi mio fratello farsi spazio tra le prime linee,
aveva il viso parzialmente coperto, ma riuscii ugualmente a riconoscerlo poiché
indossava la felpa che gli avevo regalato due anni prima per il suo compleanno.
Fu una fitta al cuore vederlo così vicino, in quel contesto, con quella felpa.
Come persi di vista la sua sagoma, i suoi compagni cominciarono a lanciare
diversi ordigni verso i fascisti e subito dopo partì una carica nei nostri
confronti. Fu un insieme di sensazioni forti e adrenalina tanto da non essere
in grado di ricostruire lucidamente ciò che passai in quei momenti; un
brigadiere chiamò l’aiuto dei colleghi che si trovavano nei camion in coda al
corteo, che percorsero a tutta velocità corso 22 Marzo in nostro sostegno, ma
il loro passaggio causò qualcosa di imprevisto: improvvisamente, un’ondata di
furia fomentò tutto il corteo, dal fondo si videro centinaia di persone
incalzare velocemente verso di noi. Poi, nello sgomento si sentì la voce di un
vice brigadiere appena arrivato con i blindati: ''È morto un ragazzo! Una
camionetta ha schiacciato un ragazzo!''. La sua voce tremava e, nonostante
tentasse di frenare le reazioni istintive dei suoi muscoli facciali, era
possibile percepire il suo smarrimento, il quale, non appena sentimmo quelle
parole, prese il sopravvento su tutti noi. La situazione era diventata
ingestibile, appena venuti a conoscenza della notizia, i manifestanti
incominciarono a spingere con più insistenza e in poco tempo riuscirono ad
entrare in via Mancini. Nel fumo di quella via l’uomo tornò ad essere animale,
l’odio aveva generato altro odio e una morte aveva portato ad un’altra morte. Quelle
giornate d’Aprile del 1975 continuarono e sembrarono non finire mai, lasciando
un segno indelebile nelle vite delle persone che le vissero.”
Testo romanzato e ispirato ad una
storia vera.
Scritto in memoria di Claudio
Varalli, Giannino Zibecchi e tutti i ragazzi morti durante i "giorni
d’Aprile".
Gianluca Rapaccini
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A chi può procedere malgrado gli enigmi, si apre una via. Sottomettiti agli enigmi e a ciò che è assolutamente incomprensibile. Ci sono ponti da capogiro, sospesi su abissi di perenne profondità. Ma tu segui gli enigmi.
(Carl Gustav Jung)
3 commenti:
oltre ad un apprezzamento linguistico relativo alla scrittura sapiente e ben congeniata, è evidente un coinvolgimento emotivo legato ad un attento studio della storia ed un' accurata documentazione. Ne deriva, a mio avviso, un lavoro che coniuga cronaca e storia insieme ad una genere letterario che non trascura le descrizioni sia dei personaggi, che dell'ambiente circostante nonchè gli stati d'animo. Veramente notevole!
Chiara P
Dimenticavo: concordo con quanto scritto da Roberto in apertura del pezzo e come prologo al racconto di Gianluca. Chiara P.
Bello!
E strano pensare che chi ha scritto non sia di quel periodo, tanto appare evocativo.
Bravo!
Roberto L.
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