Un HardMetalRock squisitamente cesellato. Non capisco come certa critica, pur apprezzandolo, ne sottovaluti il reale valore. Certo alcuni momenti ricordano cose già sentite, ma si tratta solo di accenni, anche se distribuiti qua e là in modo quasi regolare come puntini su di un quadro. In verità si sente perfettamente la voglia di essere personali e il tentativo è riccamente riuscito. Non si tratta di forzature compositive, visto che tutto appare molto spontaneo. “BABYLON” parte con un giro chitarristico iperveloce sembrando voler incedere poi verso un ritmo tirato, invece ecco un middle-time sorretto da un riff corposo. Si nota subito la ricercatezza dei suoni e dei passaggi strutturali. Orecchiabile e al tempo stesso cupo. La chitarra solista si infila qua e là con ficcante precisione e le voci tra loro sovraincise eseguono una linea melodica sinuosa. Bellissimo assolo di chitarra, sofisticato e originale. Una vera opera d’arte. “GATHER UP SNOW THE SNOW” è sorretto da un riff un pò scontato ma il percorso melodico e strutturale è raffinato e intelligente. “THE GREAT DIVIDE” ad un primo ascolto sembrano gli Europe, invece presto ci si accorge che il gruppo più vicino è quello dei Rasmus. La linea vocale contiene un certo pathos ma ce l’ha anche l’assolo di chitarra. “TAKE THE BULLET” fa di nuovo il gioco di far finta di partire veloce e invece il ritmo è più lentamente cadenzato. Ma è un brano ad effetto e dinamico. Peccato per la brevità dell’assolo che sembrava poter dare di più. “BOW YOUR HEAD” è la ballata che rimane al livello generale del disco. Sono i brani soft che mi piace sentire, considerando che spesso sono il passo falso e smielato di questo tipo di dischi. Invece buona la struttura e la melodia che non stanca. Ricorda un po’ Bon Jovi, soprattutto nel ritornello. Chitarra acustica solista che non si spreca, ma lascia al posto a quella elettrica, in entrambi i casi un po’ poco. “CAGED IN” è il pezzo fulminante che deve esserci in un disco che si rispetti. Ben rockato ed elettrico. Visto lo stile del lavoro non si tratta di un 4/4 metal iperscatenato, anzi possiamo dirlo nella tipologia delle composizioni più dure e veloci del periodo Hard di gruppi quali Ufo e Scorpions degli anni ’70 (sebbene il riff derivi dal punk…ma il punk è comunque nato nei ’70). “SOUL DISEASE” si produce in un riff parzialmente moderno ma la linea vocale non cede all’attualità, prediligendo antiche vestigia sonore. “LAVA OF MY TONGUE” è forse il pezzo più aggiornato. Riff corposo e andamento oppressivo. Non lascia andare l’ascoltatore trascinandolo in una atmosfera cupa e leggermente ipnotica. Assolo di chitarra con lievi riverberi psichedelici. Finale voce-chitarra ad effetto. Great song. “MY APOLOGIES” è un altra soft song di rilievo. Lascia la sua forte impronta nel disco, non è un riempitivo. Basata tutta sulla voce (che non è sdolcinata) mette tutti gli strumenti in secondo piano eccetto quando entra l’assolo con la sua carica mordente. Non conosco i vecchi lavori. La band è considerata di viraggio AoR; alcuni la catalogano semplicemente nell’Hard Rock o nell’Heavy Metal. Io credo che l’Aor sia appena accennato, infatti non li percepisco così leggeri; per me è una via a metà tra l’Hard Rock anni ’70 e l’Heavy Metal anni ’80, almeno in quest’album. La chitarra ritmica è lo scheletro portante ed è forse anche usata più che in certe altre band Hard Rock. Suoni puliti e di classe. Voce morbida ma che non perde mai consistenza e solismi sufficientemente virtuosi. Piatto ricco mi ci ficco. Sky Robertace Latini
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LA FOTO DELLA SETTIMANA a cura di NICOLA D'ALESSIO
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163. RECENSIONI 2012 di Roberto Latini
CIRCLE OF THE OATH - Axel Rudi Pell -
2012
Ai miei tempi (Urca ! Sono così rincitrullito da
ricorrere a questa tipica frase da vecchiaccio?) questo rock veniva chiamato
Heavy Metal anche se si rifaceva a quello degli anni ’70. Adesso invece viene
collocato impunemente nell’Hard Rock. In realtà l’Hard Rock dei settanta
suonava diverso. Ormai hard rock pare non significhi più il periodo dei ’70,
l’Hard è divenuto solo uno dei tanti tipi di Metal. Infatti si può affermare
che l’Hard attuale sia altro da quello di quel periodo: più fresco, più ibrido
e meno bluesante (alla fine questo discorso suona un po’ aleatorio). Comunque
Axel è ben inserito in questa corrente anche se risulta leggermente più
derivativo di altri. Ma c’è la classe e questo fa la differenza. “GHOST IN THE
BLACK” parte elettrica dopo un intro interessante (e peccato che non sia una
unica traccia). Bel giro di chitarra e ritmo sostenuto. Voce fresca ed
energica. Assolo di chitarra e tastiere che alternandosi fanno proprio
divertire. “RUN WITH THE WIND” è
orecchiabile ma senza perdere niente in energia e valore. Riff semplice, linea
vocale d’impatto e positivamente catchy. Se una song deve essere commerciale
deve essere così. “BEFORE I DIE” tiene su il ritmo, e con un bel riff presenta
una canzone che sta fra lo Street Metal e Bon Jovi. Bel sostegno prodotto dalla
chitarra ritmica efficacissima, ineccepibile l’assolo. “FORTUNES OF WAR” è un
pezzo dalla linea vocale pseudo Bon Joviana, ma in realtà l’arrangiamento è più
metal e corposo. Pur possedendo un ritornello canticchiabile, il pathos è
piuttosto serioso. Poi nella parte centrale, non cantata, ecco spuntare la
chitarra classicheggiante dello stile Rainbowiano. “LIVED
OUR LIVES BEFORE” è soft. Io mi preoccupo sempre di questo tipo di composizioni,
soprattutto quando lo stile va verso il commerciale. Ma questa è davvero
riuscita. Non si esce dai clichè ma possiede il giusto equilibrio d’atmosfera e
di carattere, senza farsi smielata. Io la porrei sul versante Scorpions sia per
linea vocale sia per caratteristica chitarristica. “HOLD ON TO YOUR DREAMS” inizia con un
riffato semplice semplice, più o meno supersentito, ma poi la canzone è altro e
quindi acquista valore. AoR di classe. “WORLD
OF CONFUSION” è un brano middle-time rivestito di una patina epica cui ci
abituarono proprio i Rainbow, e poi successivamente Ronnie James da solo. Nel
disco ce ne sono altri due così, si tratta della title-track e di “Bridges to
nowhere”, entrambi di ampia atmosfera, senonchè mancano di personalità, tanto
da farmeli percepire troppo familiari. Questo invece è sicuramente migliore.
Parte soffice con chitarra e voce (chitarra più Scorpioniana che Rainbowiana),
poi entra un riff caldo e doom (bè, non esageriamo) e la voce si fa virile
(tipologia alla Ronnie). Ottimi brividi sulla pelle, ma se avesse cantato
R.J.Dio avremmo avuto i brividi raddoppiati. Nel finale aumenta la velocità del
ritmo, dando il via al secondo assolo (un altro c’era stato prima), per un
finale di album dal pathos aumentato che si conclude con inserto breve di
chitarra acustica triste. In passato, pur producendo dischi buonissimi, spesso
questo chitarrista tedesco faceva troppo il verso ai Rainbow, quando di Dio
quando di Turner e compagni, ma comunque sicuramente in alcuni casi eccessivamente
Blackmore. Stavolta ha virato verso altre sonorità, pur mantenendo una base
Blackmoriana. Si sente un accostamento all’Hair Metal e all’AoR, ma anche un
che di Jon Bon Jovi e Scorpions. La percezione della leggerezza AoR non
trasforma fortunatamente mai il sound in qualcosa di banale. Gli assoli sono una parte importante del
lavoro, del resto Pell è un chitarrista. Ma qui la forma compositiva dà grande
attenzione al valore della canzone, senza inserire inutili virtuosismi. E’ un
lavoro più fresco dell’ultimo album di due anni fa, si sente una ispirazione
maggiore e non dà il senso di un lavoretto fatto per dovere. Sky
Robertace Latini
***
L’HARD ROCK VIVE TRA NOI
L’Hard Rock diventò altro da sé, più o
meno, dal 1979 in poi. Nel 1983, con Slayer e Metallica ebbe un altro
cambiamento; poi venne il Grunge negli anni ’90, e il Nu metal alcuni anni
dopo. Tra inserti di varia natura musicale tutto sembra andare sotto il singolo
nome di Metal, suddividendosi poi in sotto e sotto e sotto generi all’infinito.
Senza considerare poi che gruppi o dischi al tempo considerati heavy metal oggi
vengono catalogati come hard rock (per esempio gli Scorpions). Anche l’Hard
Rock è diventato uno dei tanti metal; avrebbe dovuto estinguersi e basta, e
rimanere un cimelio anni ’70, e invece c’è chi ha continuato a comporre quella
roba lì pur giovane anagraficamente, e lo ha fatto con personalità. Allora oggi
l’Hard Rock non è altro che uno dei tanti modi di far metal. Del resto l’unica
vera differenza tra il rock duro del passato e quello nato successivamente è
data dal fatto che quello era più vicino temporalmente e perciò stilisticamente
al rock’n’roll e al blues rock. Ma c’è modo e modo di affrontare l’Hard
Rock….quello troppo legato al passato che fa la figura del “derivativo”, cioè
dello scopiazzato che risulta trito e ritrito, oppure quello che possiede una
minima diversità da dargli quel qualcosa in più, senza per questo uscire dai
canoni Hard Rock. Ecco, ciò è quello che è successo quest’anno agli inglesi Ufo
e agli statunitensi Lillian axe e al teutonico Axel Rudi Pell. La prima band è
famosa perché suona dal 1970, e la seconda è invece un prodotto di fine anni
’80 (il primo album è del 1988). Il chitarrista Axel invece nasce
discograficamente nel 1984 con gli Steeler, ma nel 1989 da solista. Cosa hanno
fatto quest’anno le tre band ? Hanno pubblicato entrambi un nuovo lavoro da
studio: e mentre gli Ufo hanno realizzato un disco mediocre, troppo rilassato e
con pochi spunti, i Lillian Axe sembrano invece essersi impegnati ed hanno
tirato fuori un estro artistico ancora ispirato, a metà strada tra i due sta
A.R.Pell. Se vogliamo essere pignoli i Lillian axe e Pell farebbero parte di
quella parte di rock che al tempo sarebbe stato annoverato nell’Heavy e oggi
invece è Hard. Sembra come se gli Ufo si fossero detti: “Cosa abbiamo fatto
nella nostra carriera? Questo ? Ehi ha funzionato, rifacciamolo! Senti questa…ci assomiglia…buttiamola
dentro!” Invece i Lillian A. non hanno detto nulla: hanno sentito la
vibrazione, l’ispirazione divina…e, illuminati, l’hanno usata. Anche Axel
secondo me era in vena, con la differenza che non si allontana mai troppo dal
classico clichè utilizzato nel passato, restando un po’ indietro artisticamente
rispetto ai Lillian Axe, in quanto a volte troppo derivativo anch’egli come gli
Ufo (e quando lo sono gli Ufo, copiano se stessi, mentre quando lo è Axel,
copia altri, e non è certo la stessa cosa). Bè io non so davvero come è andata,
ma una cosa la capisco: non importa quanto tu sia stato bravo…se la scintilla
adesso non c’è, non c’è. Ad ogni modo sia i L.Axe che Axel Rudi Pell, hanno
prodotto un album fresco e dinamico (mentre gli UFO sono rimasti alla sbarra)
dimostrando che il rock non è morto e che non è una questione di generi o stili
ma di attitudine all’arte, di una mente e un cuore che possono accendersi come
lampadine, ma il cui interruttore non è in mano nostra. Sky Robertace Latini
***
“XI: THE DAYS BEFORE
TORROW” Lillian Axe 2012
Un HardMetalRock squisitamente cesellato. Non capisco come certa critica, pur apprezzandolo, ne sottovaluti il reale valore. Certo alcuni momenti ricordano cose già sentite, ma si tratta solo di accenni, anche se distribuiti qua e là in modo quasi regolare come puntini su di un quadro. In verità si sente perfettamente la voglia di essere personali e il tentativo è riccamente riuscito. Non si tratta di forzature compositive, visto che tutto appare molto spontaneo. “BABYLON” parte con un giro chitarristico iperveloce sembrando voler incedere poi verso un ritmo tirato, invece ecco un middle-time sorretto da un riff corposo. Si nota subito la ricercatezza dei suoni e dei passaggi strutturali. Orecchiabile e al tempo stesso cupo. La chitarra solista si infila qua e là con ficcante precisione e le voci tra loro sovraincise eseguono una linea melodica sinuosa. Bellissimo assolo di chitarra, sofisticato e originale. Una vera opera d’arte. “GATHER UP SNOW THE SNOW” è sorretto da un riff un pò scontato ma il percorso melodico e strutturale è raffinato e intelligente. “THE GREAT DIVIDE” ad un primo ascolto sembrano gli Europe, invece presto ci si accorge che il gruppo più vicino è quello dei Rasmus. La linea vocale contiene un certo pathos ma ce l’ha anche l’assolo di chitarra. “TAKE THE BULLET” fa di nuovo il gioco di far finta di partire veloce e invece il ritmo è più lentamente cadenzato. Ma è un brano ad effetto e dinamico. Peccato per la brevità dell’assolo che sembrava poter dare di più. “BOW YOUR HEAD” è la ballata che rimane al livello generale del disco. Sono i brani soft che mi piace sentire, considerando che spesso sono il passo falso e smielato di questo tipo di dischi. Invece buona la struttura e la melodia che non stanca. Ricorda un po’ Bon Jovi, soprattutto nel ritornello. Chitarra acustica solista che non si spreca, ma lascia al posto a quella elettrica, in entrambi i casi un po’ poco. “CAGED IN” è il pezzo fulminante che deve esserci in un disco che si rispetti. Ben rockato ed elettrico. Visto lo stile del lavoro non si tratta di un 4/4 metal iperscatenato, anzi possiamo dirlo nella tipologia delle composizioni più dure e veloci del periodo Hard di gruppi quali Ufo e Scorpions degli anni ’70 (sebbene il riff derivi dal punk…ma il punk è comunque nato nei ’70). “SOUL DISEASE” si produce in un riff parzialmente moderno ma la linea vocale non cede all’attualità, prediligendo antiche vestigia sonore. “LAVA OF MY TONGUE” è forse il pezzo più aggiornato. Riff corposo e andamento oppressivo. Non lascia andare l’ascoltatore trascinandolo in una atmosfera cupa e leggermente ipnotica. Assolo di chitarra con lievi riverberi psichedelici. Finale voce-chitarra ad effetto. Great song. “MY APOLOGIES” è un altra soft song di rilievo. Lascia la sua forte impronta nel disco, non è un riempitivo. Basata tutta sulla voce (che non è sdolcinata) mette tutti gli strumenti in secondo piano eccetto quando entra l’assolo con la sua carica mordente. Non conosco i vecchi lavori. La band è considerata di viraggio AoR; alcuni la catalogano semplicemente nell’Hard Rock o nell’Heavy Metal. Io credo che l’Aor sia appena accennato, infatti non li percepisco così leggeri; per me è una via a metà tra l’Hard Rock anni ’70 e l’Heavy Metal anni ’80, almeno in quest’album. La chitarra ritmica è lo scheletro portante ed è forse anche usata più che in certe altre band Hard Rock. Suoni puliti e di classe. Voce morbida ma che non perde mai consistenza e solismi sufficientemente virtuosi. Piatto ricco mi ci ficco. Sky Robertace Latini
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“SEVEN DEADLY”
UFO - 2012
In passato abbiamo già assaggiato dischi
scarsi di questa mitica band inglese. Quindi, nonostante le speranze non mi
sono sentito deluso…me lo aspettavo. Certo, considerando i fasti dei ‘70/’80, e
considerando che altri vecchi gruppi hanno pubblicato anche negli anni 2000
ottimi album, devo dire che è un peccato che gli UFO non riescano a risorgere
adeguatamente. “FIGHT NIGHT” è il miglior pezzo del disco. Un hard rock caldo e
gustoso dal 4/4 lineare. “STEAL YOURSELF”
sembra un southern hardrock dei Lynyrd Skynyrd. Bello proprio per questo. Chitarra
corposa e middle-time ripetitivo che scorre fluidamente senza punte di fuga, ma
con la classe di chi suona da anni. Assolo chitarristico del buon vecchio
stile, come un ottimo vino invecchiato. “BURN YOUR HOUSE DOWN” è una ballata
tranquilla, non sdolcinata, ma dal
feeling suadente, il quale trasporta in una atmosfera leggera e riposante che
possiede un filo di pathos. “THE FEAR” è un Hard Blues proprio vicino al sound
antico che questi rocker suonano con la giusta verve. Pastoso, denso e anche
raffinato. “OTHER’S MEN WIVES” fa il paio con il brano precedente per stile e
tipologia. Un altro Hard Blues ruvido e ritmico per dondolarsi sulle caviglie. “Wanderland”con
il riff e la prima parte cantata fa un po’ il verso ad “Electric eyes” dei
Judas priest, per questo l’ho posta tra i brani minori. Non c’è niente di
moderno in questo disco. Ma non è questo che ne abbassa il livello; si tratta
invece della qualità compositiva dal poco mordente. In una intervista Phil
Mogg, il cantante, si compiace di aver voluto dare interpretazioni più blues
che rock, ma non è questo il problema; Bonamassa e altri, sempre in questi anni
hanno fatto blues con grandi risultati. Molti brani sembrano solo dei
riempitivi, ci vuole maggiore impegno o più ispirazione. La voce di Phil non è sempre bella come lo
era in passato, ma nei momenti migliori mi dà un po’ di commovente nostalgia.
La chitarra solista invece è sempre gustosa e appassionata. Un disco complessivamente
appena sufficiente, consoliamoci con i venti dischi da studio pubblicati prima
di questo (gli Ufo sono attivi dal 1970…capperi!) Sky
Robertace Latini
***
“WRECKING BALL”
Bruce Springsteen.
Pur volendo io sentire tutto il rock, se non fosse per
gli amici non ascolterei nulla al di fuori del metal, e questo perché c’è così
tanto nel rock duro che ci si perde beatamente. E poi l’energia che c’è
nell’Heavy non c’è nel resto del rock. Ma
visto che un mio collega è un dannato maniaco di Bruce, mi tiene aggiornato su
di lui, e così ecco questa recensione. “EASY MONEY” è un brano countreggiante
quasi western, con atmosfera ariosa e solare. Cori femminili e violino la
ancorano alla tipica americanità. “THIS DEPRESSION” è una canzone calma,
liquida e d’atmosfera. Soprattutto la chitarra sinuosa dalle note prolungate
dona sensazioni di magico sogno, rarefacendo il suono. “WRECKING BALL” è la title-track che vuole
essere, nonostante l’inizio introspettivo e soft, la vera rock-song dell’album,
la canzone da live. Il ritmo è sostenuto solo in alcuni momenti, ma in essi
permetterà di ondeggiare ai concerti; e il coro finale coi suoi “oooh ooh”
servirà ad incitare il pubblico. In realtà c’è di più che ritmo e
orecchiabilità, si percepisce una certa liricità poetica. “YOU’RE GOT IT” è una ballata acustica con chitarra sleazy delle lande americane polverose e
infinite. Si respira nostalgica aria di libertà. “ROCKY GROUND” è una canzone
soffice e la sua morbidezza è intensificata dalla ripetizione della voce
femminile nel ritornello. Appare un dolce brano riflessivo con un tocco di
malinconia. Peccato per la breve parte hip hop inserita che rovina la composizione,
mentre al suo posto poteva starci magari qualche inserto chitarristico o di
cambio accordi. Poco male, ha voluto fare un omaggio ai tempi contemporanei
(omaggio che musicalmente l’Hip Hop non merita). “LAND OF HOPE AND DREAMS” fa
tornare di nuovo il rock e lo fa con la verve calda della voce di Bruce qui
resa al meglio nella sua interpretazione. Certo la frase musicale tra una parte
cantata e l’altra che fa melodicamente il verso a “Che ne sai tu di un campo di
grano” di Battisti fa sorridere me che sono da questa parte del mondo,
bisognerebbe dirgli che si è preso un pezzo di musica italiana. Finalmente un
bell’assolo di sassofono che comunque avrei sviluppato molto di più. Cosa dire
? Un album di livello, il livello
appassionato e di classe a cui ci ha abituato un rocker che usa la distorsione
con morbidezza, infatti la chitarra non è mai troppo in prima linea, e le
tastiere con parsimonia pur essendo una sua caratteristica utilizzarle per dare
maggiore corposità alla melodia. Negli ultimi anni le parti di virtuosismo strumentale sono sparite dai
dischi da studio, lasciando tale verve ai dischi live (ed infatti i brani lì si
allungano a dismisura). E per quanto riguarda la potenza rock, Bruce ha sempre
amato molto anche il lato meno ruvido e infatti negli ultimi lavori lo ha
espanso. Del resto egli affonda le proprie radici anche nel blues e nel folk
dove le note sono spesso delicate, pur pastose. Springsteen non è musicalmente
un provocatore (è più critico nei testi), la sua usuale sonorità è orecchiabile
e anche commerciale, ma ciò non lo fa scadere nella banalità. Posso notare che
anche stavolta è rimasto fedele a se stesso, rimanendo nell’alveo musicale
degli anni ‘70/’80. Questo disco ha la voce in primo piano, è su questa che si
strutturano tutte le tracce; quella sua modalità canora strascicata e ruminante
che contiene tutto un modo strettamente U.S.A. di esprimersi. Nei momenti
peggiori assomiglia a Bob Dylan, ma il più delle volte è corposo e suadente,
con un alto livello interpretativo che fa la differenza. E nel suo cantare le
parole non sono mai superficiali: il titolo dell’album “Wrecking Ball” si
riferisce alla palla d’acciao demolitrice, e infatti prega Dio che intervenga
con forza; e altri momenti lirici sono di rabbia o indignazione verso la guida
della nazione americana che il Boss ritiene responsabile della crisi economica.
L’unica cosa che mi dà fastidio è il difetto di ripetere con la chitarra la
melodia della voce, invece di farci un assolo decente (vedi in “Easy money”).
Poi si farebbe a meno di brani cantilena come la folk “Shackled and draw”,
ormai abusati. La parte iniziale del lavoro sembrava portare alla delusione,
invece con i pezzi della parte centro-finale si è ripreso, regalando ciò che
tutti si aspettavano: una opera di valore.
Sky Robertace Latini
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(Carl Gustav Jung)
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