Vertigini o contemplazione di qualcosa che finisce
Questo lillà perde i fiori.
Da sé medesimo cade
e cela la sua antica ombra.
Morirò di cose come questa.
Alejandra Pizarnik
Il vento del disagio psichico che soffia
costantemente nella poesia di Alejandra Pizarnik, vento che mi conduce sempre e senza tregua al ricordo
di Alda Merini, è uno dei motivi fondamentali per cui ho scelto di far
conoscere questa poetessa argentina. Alejandra Pizarnik, una delle voci più
intense e originali del Novecento argentino, ha suscitato interesse e adesioni
appassionate, ma anche vivaci polemiche: forse perché incarna uno spirito
libero in tutti i sensi e il concetto di libertà stesso custodisce semi di
discordia. Alejandra nasce a Buenos Aires, in Argentina, il 29 aprile del 1936,
secondogenita di una famiglia di ebrei russi, studia Lettere e Filosofia e in
seguito Pittura con Juan Battle Planas. Vive e sente senza filtri, vulnerabile
soprattutto di fronte a se stessa. tabilisce rapporti di amicizia con numerosi
intellettuali in America e in Europa. Dal 1960 al 1964 risiede a Parigi, dove
lavora per la rivista «Cuadernos» e collabora con numerose case editrici.
Alcune persone le sono molto vicine; fra queste Olga Orozco, Julio Cortázar,
Octavio Paz, la poetessa Cristina Campo alla quale Alejandra dedica versi e con
la quale stabilisce un intenso scambio epistolare. I principali lavori della Pizarnik risalgono
al periodo in cui torna a vivere a Buenos Aires. Sono di questa epoca,
infatti, I lavori e le notti, Estrazione della pietra della
pazzia e L’inferno musicale. Nel 1969 esce La contessa
crudele (o sanguinaria), testo in prosa. Studia storia delle religioni
all’Università della Sorbona.
Le sue opere testimoniano con efficacia
le varianti stilistiche dell’autrice, che raccoglie talvolta in brevissime
liriche un’unica metafora che segnala il contrasto tra la spavalderia del mondo
esteriore e un’intimità ferita: «Scrivere una poesia – dice Alejandra – è
riparare la ferita fondamentale, lo squarcio». Oppure sceglie il poème en
prose, o la sentenza, o la pagina di diario. «Parlo come si parla in me. Non la
mia voce che si ostina ad assomigliare a una voce umana ma l’altra voce che
attesta che non ho smesso di abitare nel bosco». Questa giovane donna ospita in
sé un immenso abisso, come un fiore del male dalle radici piantate nel vuoto.
Un vuoto fatto di inquietudine, disagio e consapevolezza che tenta di placare
attraverso una passione quasi ossessiva per la lettura e per la scrittura. Sarebbe
riduttivo indicare nella sua ricerca di identità, data la sua origine di ebrea
russa e la sua condizione di figlia di immigrati in Argentina, la genesi del
suo complesso e disperato approccio all’esistenza anche se questo tema doloroso
la scorterà per tutta la vita. Una serie di ragioni manifeste e nascoste
preparano una sorta di sottobosco della coscienza nel quale crescono giorno
dopo giorno i semi insensati di un addio alla vita. Anche se non è ragionevole
pensare che tutta la sua poesia si possa spiegare come un percorso verso una
morte cercata, sembra, a 36 anni per un’overdose di Seconal il 25 settembre del
1972, dopo quattro mesi trascorsi in un ospedale psichiatrico e anni di
depressione e di tentativi di suicidio.«Il suo paese fu risucchiato nella
dittatura in una spirale di torture e violenze che inghiottì decine di migliaia
di vite, trasformando l’Argentina in un labirintico castello di Csejthe dimora
della Contessa Bathory, protagonista dell’unica opera in prosa della poetessa.
Oggi molti rintracciano nel libro La Contessa Sanguinaria l’inquietante
profezia dello sterminio che ha violentato la gioventù di un paese e fatto
scempio della sua innocenza». Lo stile della Pizarnik, solo in apparenza
semplice, quasi contratto, nasconde in realtà una ricerca letteraria accurata,
che guarda ai maestri della poesia visionaria, onirica e notturna.Ci sono poeti
che sembrano dover rappresentare con la loro esistenza l’icona della morte. Il
sorriso di Alejandra , appare sempre malinconicamente autoironico e incapace di
celebrare le vuote ritualità dell’esistenza. Ricostruire la sua biografia al di
fuori della scrittura non sembra possibile. Non vi sono, infatti, eventi
significativi. Pochi sono gli incontri di cui parla Alejandra. Gli amori sono
raccontati solamente nella loro impossibilità. La solitudine è sempre presente
nelle pagine che tradiscono il sentimento di perdita, d’abbandono senza fine.
Il vuoto tuttavia richiama la materia. Sembra questa una delle ragioni più
plausibili per le quali la poesia della Pizarnik è stata considerata materiale,
fisica, talvolta quasi “animale”. Forse in assenza di un’esistenza che fatica a
realizzarsi, la poesia diventa una rappresentazione della vita negata. La ricerca di una “perfezione poetica” per
Alejandra Pizarnik è in contrasto con ciò che vive, che è perennemente
incompiuto. La consapevolezza di un’innocenza perduta, le dà la misura del non
ritorno, dell’impossibilità di tracciare strade nuove che riscattino l’anima e
i sogni.
«Se c’è una ragione per la quale scrivo,
è perché qualcuno mi salvi da me stessa »
(30 luglio 1962)
“Vorrei poter vivere solo in estasi, fondendo il corpo
della poesia con il mio corpo, riscattando ogni frase con i miei giorni e le
mie settimane, infondendo alla poesia il mio respiro in modo che ogni lettera
di ogni parola sia sacrificata nelle cerimonie del vivere”
(1971 - dalla raccolta, “L’inferno musicale”)
Con il
suicidio avvenuto nella notte tra il 24 e il 25 settembre 1972 per un’overdose
di barbiturici Alejandra aggiunge il suo nome al registro delle eroine della
letteratura che le parole non hanno saputo salvare: da Sylvia Plath a Marina
Cvetaeva, da Anne Sexton ad Antonia Pozzi.La forza vitale della loro inquietudine
conia un nuovo linguaggio, in cui le parole sono solo orpelli inutili; un
linguaggio fatto di sguardi e silenzi, che non riverberano il vuoto ma
afferrano e costruiscono il presente. Un linguaggio che permetta a loro di “tornare a essere”, come scrive Alejandra
ne La notte, una poesia tratta da Le avventure perdute del
1958:
So poco della notte
ma la notte sembra sapere di me,
e in più, mi cura come se mi amasse,
mi copre la coscienza con le sue stelle.
Forse la notte è la vita e il sole la
morte.
Forse la notte è niente
e le congetture sopra di lei niente
e gli esseri che la vivono niente.
Forse le parole sono l’unica cosa che esiste
nell’enorme vuoto dei secoli
che ci graffiano l’anima con i loro ricordi.
Ma la notte deve conoscere la miseria
che beve dal nostro sangue e dalle nostre idee.
Deve scaraventare odio sui nostri sguardi
sapendoli pieni di interessi, di non incontri.
Ma accade che ascolto la notte piangere
nelle mie ossa.
La sua lacrima immensa delira
e grida che qualcosa se n’è andato per sempre.
Un giorno torneremo a essere.
CHIARA PASSARELLA
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