Qualche giorno fa, mentre tornavo da Roma in auto, ho sentito in una trasmissione radiofonica, questo scritto di Rudolf Nureyev (clikka qui). Ogni mio commento lo deturperebbe.
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LA FOTO DELLA SETTIMANA a cura di NICOLA D'ALESSIO
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319. UNO SCRITTO DI RUDOLF NUREYEV di Roberto Rapaccini
Qualche giorno fa, mentre tornavo da Roma in auto, ho sentito in una trasmissione radiofonica, questo scritto di Rudolf Nureyev (clikka qui). Ogni mio commento lo deturperebbe.
"Era l’odore della mia pelle che cambiava, era prepararsi
prima della lezione, era fuggire da scuola e dopo aver lavorato nei campi con
mio padre perché eravamo dieci fratelli, fare quei due chilometri a piedi per
raggiungere la scuola di danza. Non avrei mai fatto il ballerino, non potevo
permettermi questo sogno, ma ero lì, con le mie scarpe consunte ai piedi, con
il mio corpo che si apriva alla musica, con il respiro che mi rendeva sopra le
nuvole. Era il senso che davo al mio essere, era stare lì e rendere i miei
muscoli parole e poesia, era il vento tra le mie braccia, erano gli altri
ragazzi come me che erano lì e forse non avrebbero fatto i ballerini, ma ci
scambiavamo il sudore, i silenzi, a fatica. Per tredici anni ho studiato e
lavorato, niente audizioni, niente, perché servivano le mie braccia per
lavorare nei campi. Ma a me non interessava: io imparavo a danzare e danzavo
perché mi era impossibile non farlo, mi era impossibile pensare di essere
altrove, di non sentire la terra che si trasformava sotto le mie piante dei
piedi, impossibile non perdermi nella musica, impossibile non usare i miei
occhi per guardare allo specchio, per provare passi nuovi. Ogni giorno mi
alzavo con il pensiero del momento in cui avrei messo i piedi dentro le
scarpette e facevo tutto pregustando quel momento. E quando ero lì, con l’odore
di canfora, legno, calzamaglie, ero un’aquila sul tetto del mondo, ero il poeta
tra i poeti, ero ovunque ed ero ogni cosa. Ricordo una ballerina Elèna
Vadislowa, famiglia ricca, ben curata, bellissima. Desiderava ballare quanto
me, ma più tardi capii che non era così. Lei ballava per tutte le audizioni,
per lo spettacolo di fine coso, per gli insegnanti che la guardavano, per
rendere omaggio alla sua bellezza. Si preparò due anni per il concorso Djenko.
Le aspettative erano tutte su di lei. Due anni in cui sacrificò parte della sua
vita. Non vinse il concorso. Smise di ballare, per sempre. Non resse la
sconfitta. Era questa la differenza tra me e lei. Io danzavo perché era il mio
credo, il mio bisogno, le mie parole che non dicevo, la mia fatica, la mia
povertà, il mio pianto. Io ballavo perché solo lì il mio essere abbatteva i
limiti della mia condizione sociale, della mia timidezza, della mia vergogna.
Io ballavo ed ero con l’universo tra le mani, e mentre ero a scuola, studiavo,
aravo i campi alle sei del mattino, la mia mente sopportava perché era ubriaca
del mio corpo che catturava l’aria. Ero povero, e sfilavano davanti a me
ragazzi che si esibivano per concorsi, avevano abiti nuovi, facevano viaggi.
Non ne soffrivo, la mia sofferenza sarebbe stata impedirmi di entrare nella
sala e sentire il mio sudore uscire dai pori del viso. La mia sofferenza
sarebbe stata non esserci, non essere lì, circondato da quella poesia che solo
la sublimazione dell’arte può dare. Ero pittore, poeta, scultore. Il primo
ballerino dello spettacolo di fine anno si fece male. Ero l’unico a sapere ogni
mossa perché succhiavo, in silenzio ogni passo. Mi fecero indossare i suoi
vestiti, nuovi, brillanti e mi dettero dopo tredici anni, la responsabilità di
dimostrare. Nulla fu diverso in quegli attimi che danzai sul palco, ero come
nella sala con i miei vestiti smessi. Ero e mi esibivo, ma era danzare che a me
importava. Gli applausi mi raggiunsero lontani. Dietro le quinte, l’unica cosa
che volevo era togliermi quella calzamaglia scomodissima, ma mi raggiunsero i
complimenti di tutti e dovetti aspettare. Il mio sonno non fu diverso da quello
delle altre notti. Avevo danzato e chi mi stava guardando era solo una nube lontana
all’orizzonte. Da quel momento la mia vita cambiò, ma non la mia passione ed il
mio bisogno di danzare. Continuavo ad aiutare mio padre nei campi anche se il
mio nome era sulla bocca di tutti. Divenni uno degli astri più luminosi della
danza. Ora so che dovrò morire, perché questa malattia non perdona, ed il mio
corpo è intrappolato su una carrozzina, il sangue non circola, perdo di peso.
Ma l’unica cosa che mi accompagna è la mia danza la mia libertà di essere. Sono
qui, ma io danzo con la mente, volo oltre le mie parole ed il mio dolore. Io
danzo il mio essere con la ricchezza che so di avere e che mi seguirà ovunque:
quella di aver dato a me stesso la possibilità di esistere al di sopra della
fatica e di aver imparato che se si prova stanchezza e fatica ballando, e se ci
si siede per lo sforzo, se compatiamo i nostri piedi sanguinanti, se
rincorriamo solo la meta e non comprendiamo il pieno ed unico piacere di
muoverci, non comprendiamo la profonda essenza della vita, dove il significato
è nel suo divenire e non nell’apparire. Ogni uomo dovrebbe danzare, per tutta
la vita. Non essere ballerino, ma danzare. Chi non conoscerà mai il piacere di
entrare in una sala con delle sbarre di legno e degli specchi, chi smette
perché non ottiene risultati, chi ha sempre bisogno di stimoli per amare o
vivere, non è entrato nella profondità della vita, ed abbandonerà ogni
qualvolta la vita non gli regalerà ciò che lui desidera. È la legge dell’amore:
si ama perché si sente il bisogno di farlo, non per ottenere qualcosa od essere
ricambiati, altrimenti si è destinati all’infelicità. Io sto morendo, e
ringrazio Dio per avermi dato un corpo per danzare cosicché io non sprecassi
neanche un attimo del meraviglioso dono della vita… " RUDOLF NUREYEV
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