PROGRESSIVE:
termine astratto.
Cos’è la
Progressive Music? E’ un genere, ma, a differenza di altri generi, non è ben
codificabile. Può voler dire sperimentazione, ma anche no. Può voler dire
atmosfera, ma anche no. Può voler dire tecnica di alto livello, ma anche no.
Può voler dire mescolanza di sonorità, e questo forse quasi sempre, ma non in
maniera per forza così ampia. Il prog entra in molti generi, trasforma i generi
in qualcosa di più aperto, che accetta le ingerenze stlistiche senza
preconcetti. Abbiamo così il Prog-Rock; il Prog-HardRock; il Prog-Metal, e nel
metal il Prog-Thrash; il Prog-Black; Il Prog-Power. Il risultato è una serie di
band che stanno nell’ambiente Progressive senza assolutamente assomigliarsi. I
due album targati 2016, qui di seguito recensiti, dimostrano proprio tale
capacità di diversità. Sia i vecchi Kansas che gli attuali Heller Schein sono
situabili nel calderone Prog, ma la loro distanza stilistica è lontanissima. I
primi classicamente legati alla grande tradizione degli anni ’70 di Yes, Pink
Floyd e Genesis, riletta sotto le vesti americaneggianti di maggior accesso e
orecchiabilità, lontana da sperimentazioni jazz alla King Crimson; un suono
pulito e gentile pur nella rudezza rock di alcuni momenti. I secondi invece
totalmente post anni ’80, nella fascia estrema del Prog (senza arrivare alle
punte Black/Death) dove i suoni violenti e crespi sembrano ben altro che le
suadenti carezze del progressive più conosciuto. In qualche modo, la ormai ben
strutturata forma dei Kansas non sembra nemmeno più Progressive, mentre variare
col Thrash ancora appare come il voler cercare qualcosa di nuovo. E’ la
contraddizione di questo genere, essere chiamato Progressive anche quando
l’innovazione è assente. Il termine assume modi di fare musica non sempre
univoci, e questo lo rende astratto, e quindi si arriva al limite di non
riuscire a classificare bene alcune band. Non è il caso di questi due combi, i
cui rispettivi album hanno specificità piuttosto chiare e individuabili; e al
tempo stesso sanno essere interessanti, riuscendo a regalare diversi stati
d’animo in una serietà compositiva che li fa rimanere nell’alveo della
costruzione di un certo rilievo.
“SONIC CLASH WARNING”(2016) degli
Heller Schein (Italy)
Etichetta: Hot Pot Recordings.
Esordio di fuoco per questi rudi Bolognesi. Prog-Metal
con Thrash incorporato, in un multiforme attacco di musica che appare
fortemente Alternative, sebbene usando passaggi sonori molto classici. L’ascolto
è sfibrante, sia perché il songwriting è schizofrenico nelle sue modificazioni,
sia perché non viene mai zittito il lato esplosivo. Il loro moniker deriva da
una song dei Rammstein, per cui è in lingua tedesca e significa Luce Brillante
(ma luce piuttosto soffusa, tipo da lampada o candela). “ASCENSION” è l’inizio dell’album e subito
informa l’ascoltatore che la band non seguirà linee rassicuranti ma si esibirà
in escandescenze eclettiche. Infatti l’opposizione di agitazione e sofficità si
alternano continuamente su tutta la linea strutturale; sono tre caratteristiche
divise in ritmicità, acusticità e pseudo-doom. Il pezzo appena commentato è già
ad un buon livello, ma è “KARMA” a sottolineare meglio la bontà qualitativa
della proposta; è una song ancora più pazza, contrapponendo la forma rutilante
a quella più introspettiva e mortifera, si scatena con accenti molto accesi ma
sa curare anche il lato introspettivo. La maggior epicità si riscontra nella
cupezza della title-track “Sonic Clash Warning” i cui riff non sono totalmente
Thrash, pur esprimendo una globalità di tipo metal-classico quasi NWOBHM,
sebbene poco ortodosso. L’altrettanto epica “VICKY’S LEGACY” è cantata come se
la voce roca di Brian Johnson entrasse in una band più dura degli AC/DC
cercando di avvicinarsi ai Cirith Ungol; una sfuriata che non gioca sulla velocità,
ma sulla ritmica dinamicità, posta fra Thrash e NWOBHM, e su più atmosferici
passaggi centrali. “Grand Father Song” ruba un po’ di atmosfera agli Iron
Maiden, ma senza che l’orecchio possa accorgersene subito. Il brano meno
riuscito appare “Watching through My Head a Baby”, soprattutto per la linea
melodica poco convincente e l’indecisione vocale del cantante; altrimenti avrebbe
degli ottimi spunti compositivi. Le urla belluine del cantato acuto fanno
venire in mente quelle dei romani Astaroth (anni ‘80) o quelle dei Raven (e
anche un po’ dei Savatage), dalla tipologia piuttosto schizoide. Più scura e
rozza l’altra tonalità utilizzata, quasi mai davvero growl (solo per brevi
istanti) ma la sua alternanza con il versante acuto è perfettamente
equilibrata; la voce quando troppo pulita e soft funziona meno. Focosa la
sezione ritmica e pesanti gli scoppi d’ira che solitamente non sono un
crescendo ma una detonazione che fuoriesce da una pausa. Le irruenze
chitarristiche sanno dare un impulso energetico ben collocato nel songwriting,
songwriting che non sembra necessitare di assoli (e infatti essi latitano). La
durezza e l’intransigenza di certi momenti non perde però mai la fruibilità delle
song, e anche quando si passa velocemente da un atteggiamento ad un altro,
l’accessibilità è immediata. Tecnicamente non è un album prodotto col massimo
della qualità; ma la sensazione di metal alternativo si sposa bene con i suoni
utilizzati. I difetti sembrano quasi doverosi in un disco come questo che
riesce costantemente a rimanere interessante dal punto di vista
dell’originalità; doverosi poiché danno un senso di onestà e del resto non
danneggiano il tessuto generale. Pur apparendo come musica particolarmente
esuberante non accelera mai in modo parossistico, e soprattutto non esce mai
davvero da una concettualità ben codificata, la voglia di fuggire la comune
“normalità” metal, non provoca esagerazione nella ricerca della stranezza e
quindi non cade nella ridicolaggine, sebbene appaia leggermente ironica.
1. L'ascensione 2.Karma 3.Grand Padre canzone 4.Twisted Joker
5. sonico Clash Attenzione 6.Watching per la testa eredità di un bambino 7.Viky
Francesco Massimiliani – vocals / Nicola
Deodato - guitars
Davide Laugelli – bass / Paolo Massimiliani – drums
“THE PRELUDE
INCIPIT” (2016) album dei Kansas (USA)
Etichetta: InsideOut.
Una band
raffinata che esplicita la sua appartenenza sonora ai grandi spazi, in senso
americano tipicamente riconoscibile. La loro musica orecchiabile, ma anche
capace di indurimenti sonori, passa dall’Hard rock al semplice Rock, fino alla
leggerezza dell’AoR, con tecnicissima spontaneità, inserendo anche sfumature
country-folk non molto nascoste; alla fine tutto l’insieme è da sempre stato
categorizzato come Prog-Rock o Prog-HardRock; talvolta anche Pomp-Rock per la
maestosità di alcuni passaggi. Il loro esordio è datato 1974, e da allora siamo
arrivati al full-lenght numero 15. Questo nuovo lavoro è un evento, in quanto
sono passati ben sedici anni dall’ultimo “Somewhere to Elsewhere”. C’è una
nostalgica reminiscenza anni ’70, rispetto agli anni ’80 che portarono nel
gruppo una modernità un tantino troppo laccata e commerciale. E l’impostazione
di stampo antico funziona senza apparire stantìo, grazie alla classe e al mestiere. I pezzi migliori ricordano al
meglio i vecchi fasti degli anni ’70 appunto, come quello di apertura “WITH
THIS EARTH”, contemporaneamente docile e grintoso (quest’ultima caratteristica
soprattutto grazie al drumming). Bella carica la riffica di “RHYTHM IN THE
SPIRIT”, in modalità Hard, che si spegne col basso soffuso e la voce limpida,
senza però perdere fascino, fino ad un ritornello perfettamente incastonato dai
violini di magnifico effetto. Molto gustosa “THE VOYAGE OF EIGHT EIGHTEEN”
dall’essenza folk-rock, grazie soprattutto agli onnipresenti violini; pezzo
molto corposo dove i passaggi ritmici sono importanti più della linea melodica.
L’episodio più tosto è la ritmata “SUMMER”, leggera nelle strofe, coralmente
incisiva nel ritornello, aggressiva nella parte degli assoli, violino, chitarra
e tastiere, anticipati da un bel riffare corposo. L’Hard Rock più esplicito è situato
nella rocciosa “Crowed Isolation”; riff ossessivo e aperture ariose, non
originalissima, ma di forte appeal. Non tutto luccica, le ballata “Refugee”, ad
esempio, è un po’ una delusione, ma non perché brutta, anzi, tutto il
contrario, ma si presenta come tronca, non sviluppata, senza mantenere quello
che sembra promettere; per quanto soavemente densa, si limita a una ripetizione
del cantato e ad un finale strumentale rarefatto, particolarmente ad effetto,
ma che non ha la pienezza per terminare, dando l’impressione di essere l’intro
di qualcos’altro, un bell’intro certo, ma nulla di più. Poi ci sono due momenti
che sono un mezzo passo falso; si tratta di “Visibility Zero” che possiede una
linea vocale piuttosto banale e “The Unsung Heroes” che pare una canzone
natalizia poco tonica. Questi sarebbero i due momenti AoR che non offrono
granchè se non un ottimo arrangiamento e due belle parti soliste. Infatti le
varie parti strumentali sono sempre pregnanti e significative; la prima delle
song appena nominate, offre un assolo di violino elettrico e sferzante, il
secondo pezzo invece un soffice susseguirsi di passaggi eleganti. E così avviene
per gran parte delle tracce, dove la cura solista è ben strutturata, affidata
per la maggior parte al violino, anche se in alcuni momenti pure la chitarra sa
farsi prepotente come in “Rhythm in the Spirit”. Niente di particolarmente
esaltante fanno sentire le due strumentali, “Section 60” e “Oh Shenandoah”, per
quanto piacevoli e non semplici riempitivi. La cover di “Home on the Range”,
cowboy folk-song del 1870 scritta da Kelley/Higley, è eseguita senza una
rilettura che ne amplifichi il potenziale, riducendosi a mero omaggio,
musicalmente poco significativo. I Kansas hanno segnato in modo importante la
storia del progressive-folk-rock, rendendosi autori di pietre miliari della
musica internazionale, ponendo la melodia in contesti potenti, una stilistica
che altre band hanno intorbidato cercando troppa commercialità, come hanno
fatto i Toto che sono l’emblema del genere AoR,
e che in parte si rifanno ai Kansas. I Toto eliminarono il lato folk,
optando invece per una sfumatura Pop. L’AoR, i Kansas, difficilmente lo sposano
in pieno. Famosissima la magnifica ”Dust in the Wind”, ballata inarrivabile del
’78. Qui, in questo pur buon lavoro, manca l’attitudine a quella magia;
fortunatamente essi sono in grado di emozionare ancora, tanto da apparire in
forma e tanto da non snaturare la loro essenza di musicisti ispirati.
Sky RobertAce Latini
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