So che il dolore in parole è appena
un venticello di stracci, murene d’acquario.
Ma io sono stata morta per troppi anni e adesso
sono oltre la velleità del dolore e oltre la comprensione
che sillabe su sillabe possano dare.
Il mio scrivere è soltanto un buio errare
tra funeste stazioni diroccate, tra binari spenti
che tracciano disegni angusti, stenti
ricoveri di stelle cadute nelle pozzanghere.
Maria
Marchesi da L’occhio dell’ala
Della biografia di Maria Marchesi si sa soltanto che è
nata nel Veneto da madre lombarda e da padre friulano. Si è laureata in Lettere
Classiche, con una tesi su Lucrezio, e ha lavorato per un breve periodo nella
scuola insegnando greco e latino. Ha sofferto per lunghi anni di gravi
disturbi della psiche relegata in una casa di cura da cui è uscita dopo la
legge Basaglia. Così la poetessa scrive di se stessa nella premessa del
suo primo libro “L’occhio dell’ala”: E’ una strana vicenda poetica la mia.
Scrissi le prime poesie in un ospedale psichiatrico. Scrivevo e strappavo.
Trasformavo in versi tutto ciò che mi accadeva, pensavo o percepivo. […] Quando
poi i manicomi sono stati chiusi e sono stata riconsegnata a me stessa (con
tutte le difficoltà che si possono immaginare), ho ripreso a scrivere. Intanto
avevo fatto molte letture, di poeti soprattutto, e sentivo che i miei
versi non erano peregrini e che avevo voglia di farmi leggere. Così inviai un
mannello di composizioni ad Andrea Zanzotto e a Geno Pampaloni. Le risposte
furono immediate: Zanzotto, con due cartoline postali, mi parlò di
“consapevolezza autentica, di grande poesia; mi consigliò di “evitare
riferimenti ad altri autori letterari” e mi raccomandò a un editore importante;
Pampaloni sottolineò “la musicalità… il senso acuto del paesaggio, la
malinconia di fondo che non arriva alla disperazione” e azzardò un paragone con
grandi poeti come Celan, Michaux, Trakl, Silvia Plath. Diceva “E’ poesia alta,
una sorpresa che sconcerta ed esalta”. Chi sia Maria Marchesi se lo sono già
domandato in tanti prima di questo momento: premio Viareggio 2004 per la
poesia, nessuno ritira in verità il premio, né si farà, alcuno, portavoce. Le
parole però ci sono, le odi, le sillogi, e vengono alla luce, nella stampa, due
libri: “L’occhio dell’ala”, per Lepisma nel 2003 (che appunto vincerà il
premio) e due anni dopo “Evitare il contatto con la Luce” sempre per Lepisma
editore. E infine nel 2014 “Non sono più mia”. ppure. […] È lì che
trovo / una bambola lercia e scucita ormai, / un piccolo alveare le cui api
parlano / la mia lingua, e un cespo di rose canine / che profumano senza
secondi fini.” Ma partiamo dal principio, anni addietro, durante i quali in
seguito al manifestarsi di una depressione, la poetessa – che ricordiamo avere
ancora milioni di parole sparse tra i suoi cassetti - la prima volta si
fa ricoverare spontaneamente; successivamente invece andrà in maniera diversa,
iniziano così, anche per lei, le vicende presso gli ospedali psichiatrici. Gran
parte dei suoi scritti fa riferimento proprio a quei cicli, a quel susseguirsi
di giorni e violenza, di pastiglie e umiliazioni, menomazioni dell’anima. “Non sono
più mia” raccoglie anche inediti incerti di dubbia provenienza ma non di dubbia
poeticità. Le parole vibrano “Non sono più mia ormai e vorrei sbaraccare, /
portarmi dietro le cose invisibili / che sono i pensieri però ancora intatti“;
le immagini che proiettano le sue parole sono crude, vivono in latrine, non
possono mai prendere il volo. E quando finalmente, nel 1999, la sanità grazie
alla legge Basaglia porta a termine la chiusura di tutti i manicomi, si respira
sollevati: le violenze sui malati si possono dire definitivamente cessate. La
poesia, con la Marchesi, non necessita di traduzioni; le parole sono impresse
sulla carta già intrise del suo più profondo significato, e lasciano baffi e
sgualciture, che costringono alla rilettura: leggerla una volta sola non
basterebbe mai. Una raccolta di versi che è di per sé un romanzo. Un giallo
poetico. Un incastro da scatole cinesi tra gli ultimi componimenti della
poetessa Maria Marchesi, venuti alla luce dopo anni di silenzio, e il buio che
avvolge la vicenda biografica dell'autrice, acclamata e poi subito negletta dai
circoli letterari. Una silloge dai toni aspri e ruvidi centrata sulla scissione
tra lo spirito e il corpo della poetessa a lungo internata nell'ex manicomio
romano di S. Maria della Pietà. Le violenze, gli abusi, le privazioni
squadernate ora con disprezzo, ora con distacco, ma sempre con maestria lirica
e potenza evocativa. Immagini e parole crude per designare un mondo in cui i
veri folli non sono i pazienti. Nella prefazione lo psicoterapeuta Nicola
Ghezzani traccia l'identikit della mente (di donna? di uomo?) che si cela
dietro i versi. Nella postfazione l'editore svela i dettagli della caccia a
un'identità anagrafica a cui attribuire gli inediti. Ne risulta
un'appassionante iter "investigativo" in cui pseudonimo, identità
reale e fittizia s'intrecciano in una vicenda romanzesca. L’editore, nel
rendere omaggio a una leggenda, compie un viaggio – dentro a se stessa e dentro
ogni lettore rapito dalla Marchesi – e ne compie uno a latere, alla ricerca mai
affranta di una vera identità che incarni in tutto e per tutto le liriche qui
raccolte. Chi è dunque la Marchesi, quale passato cela, perché scrive, ha
figli, ha un’omonima? Che cosa importa, di tutto questo, se a noi restano
comunque le odi finalmente raccolte e date alla stampa in “Non sono più mia”?
Per concludere, la Marchesi è una donna che ha rinunciato alla ribalta e della
quale non si hanno altre notizie se non quelle riportate in calce ai suoi primi
due libri. Sbagliato sarebbe costruire una graduatoria fra le due borderline
(Merini e Marchesi) alimentata dalla stessa Marchesi nella prefazione, mettendo
in dubbio che la Merini abbia davvero vissuto l'inferno. Tuttavia nei testi di
entrambe c' è la violenza manicomiale e la tenerezza dell'amore, il sentirsi la
primavera crescere nelle vene e la consapevolezza che la scrittura possa dare
unità ad un'anima franta. Così si legge anche nella Serie ospedaliera di
Amelia Rosselli, tanto da poter affermare che in queste tre ancelle dannate sta
il fondamento della poesia femminile del secondo novecento. Se Merini e
Rosselli hanno avuto la canonizzazione che meritavano, credo sia giunto il
tempo di restituire anche alla Marchesi il credito dovuto, perlomeno con studi
critici che ne evidenzino l'originalità e la forza programmatica. CHIARA
PASSARELLA
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