Al sole
Più
bello della nobile luna e della sua luce gentile
più bello delle stelle, gloriose insegne della notte
molto più bello di una cometa al suo ardente apparire,
e
chiamato a gesta assai più belle d’ogni altro astro,
ché a lui ogni giorno la tua e la mia vita si deve, è il sole.
Bel sole, che sorge memore della sua opera
e la compie, in estate bellissimo, quando il giorno
svapora sulla costa e le flaccide vele riflesse
scorrono sui tuoi occhi, finché stanca le tronchi.
Senza il sole riprende il velo anche
l’arte
più non mi appari, e il mare e la sabbia
frustati da ombre fuggono sotto la palpebra.
Bella luce, che ci riscalda, preserva e meravigliosa provvede
che io veda ancora e che ancora ti veda
nulla di più bello sotto il sole che stare sotto il sole…
Nulla di più bello che guardare il bastone nell’acqua
e
l’uccello nel cielo
ponderare il suo volo, e in basso i pesci nel banco,
Colorati, formati, giunti al mondo con un messaggio di luce
e guardarsi d’intorno, il quadrato di un campo, i mille
angoli
del mio paese
e il vestito che indossi. E il tuo vestito azzurro a campana!
Azzurro stupendo, in cui i pavoni passeggiano e s’inchinano,
azzurro
di lontananze, di zone felici, con i climi per il mio sentire,
azzurro caso all’orizzonte! E i miei occhi entusiasti
si dilatano ancora, sfavillano e ardono sino allo spasimo.
Bel sole, a cui anche la polvere rende il tributo più alto,
e dunque non per la luna e le
stelle e non
per
le comete millantate dalla luna, che tenta di beffarmi,
ma per te, e presto infinitamente, e come per null’altro
piangerò nel lamento la rovina dei miei occhi ineluttabile.
Ingeborg Bachmann
Con l’arrivo dell’estate, ho scelto questa poesia
di Ingerborg Bachmann, dedicata al sole, ma che in realtà è un gran bel canto
d’amore. La Bachmann è anche una figura simbolo delle persecuzioni naziste.
Nata a Klagenfurt, in Austria nel 1926, ottenne il primo riconoscimento col premio conferitole dal
"Gruppo 47" per le poesie riunite in Die
gestundete Zeit (1953), nelle quali i motivi
ideologici della sua formazione intellettuale (Heidegger, Wittgenstein)
s'incontrarono con il tema della generazione venuta dopo gli orrori della
guerra nella dimensione d'un linguaggio spesso tormentato e astruso, ma sempre
autentico. Nella successiva raccolta, Anrufung des grossen Bären (1956), i nodi espressivi tendono a sciogliersi in un dettato
più lucido (vi compare spesso, al posto del metro libero, la strofa rimata),
pur senza perdere di profondità. Di singolare interesse (a parte alcuni testi
minori, fra i quali ricorderemo i radiodrammi Die Zikaden, 1955 e Der gute Gott von Manhattan, 1958, in forma di ballata) sono altresì i volumi di racconti Das
dreissigste Jahr (1961) e Simultan (1972) e il romanzo Malina (1971):
pagine narrative caratterizzate da una intensa vibrazione poetica, anche se
quasi sempre lontane dai moduli della "prosa lirica". mLa mia vita
finisce perché lui è annegato nel fiume durante la deportazione. Era la mia vita.
Io l’ho amato più della mia vita.” - Ingeborg
Bachmann, Malina, 1971-Il 17 ottobre 1973, moriva a Roma la scrittrice
austriaca Ingeborg Bachmann, vittima di un incidente verificatosi, in
circostanze mai del tutto chiarite, nella sua abitazione di Via Giulia 66. Così
Thomas Bernhard, suo conterraneo e come lei esule volontario dall’amata/odiata
Austria, in Der Stimmenimitator, descrive e giudica quello che non gli
sembra un incidente: «In una clinica romana, in seguito alle scottature e alle
ustioni che deve essersi procurata, come hanno accertato le autorità, mentre
era nella sua vasca da bagno, è morta la scrittrice più intelligente e più
significativa che il nostro paese abbia prodotto in questo secolo (…). La gente
si chiede se la sua morte sia stata solo una disgrazia o effettivamente un
suicidio. Quelli che credono al suicidio della scrittrice continuano a dire che
si è distrutta da sé, mentre in realtà a distruggerla è stato, com’è naturale,
il mondo che la circondava e, in sostanza, la meschineria del suo paese
d’origine, dalla quale era stata perseguitata passo dopo passo anche
all’estero, com’è accaduto a tanti altri.».
Questa requisitoria di Bernhard, che non lascia spazio a giustificazioni
di sorta, può trovare origine nelle parole della stessa Bachmann, citate da
Heinrich Böll, con le quali racconta quando, appena adolescente: «C’è stato un
determinato momento che ha distrutto la mia infanzia: l’ingresso delle truppe
di Hitler a Klagenfurt. Fu qualcosa di così orribile che i miei ricordi iniziano
con questo giorno: con un dolore troppo precoce e con un’intensità che forse io
non ho mai più provato (…) quell’immane brutalità, che era percepibile, quel
vociare, quel cantare e marciare – il sorgere della mia prima angoscia
mortale». E Böll si domanda, a commento di questa citazione: “Non è stata forse
così respinta dalla sua patria una ragazza di dodici anni di nome Inge?”. In
effetti questa patria perduta rimarrà per sempre come una ferita nel cuore
della scrittrice, tanto da indurla a peregrinare tra la Baviera, l’Inghilterra,
la Svizzera, gli Stati Uniti, Berlino Ovest, Hessen e Roma, dove visse per
vent’anni, e dove morì. In una forma
analoga il matematico romano Mario Fiorentini descrive quei tragici momenti, e
le sensazioni che ne riceve, con la famosa frase, rivolta alla sua compagna,
“Nous sommes dans un cul de sac”: «Il 10 settembre 1943 ho assistito ad un
evento memorabile e sconvolgente: l’ingresso e la presa di possesso di Roma da
parte della colonna corazzata tedesca. Lucia Ottobrini ed io ci troviamo in Via
del Tritone, all’angolo con Via Zucchelli, a cento metri da Via Rasella. Sono
entrati in Roma da dominatori. E, francamente, ho avuto i brividi, perché mi
sono ricordato i filmati Luce di quando Hitler e i suoi generali occupavano
Parigi.». Anche un altro poeta, Paul
Celan, verrà colpito dalle persecuzioni naziste, sia in prima persona che negli
affetti più cari, e porterà per sempre dentro il ricordo indelebile di quegli
avvenimenti. Infatti, nel 1942,
in seguito all'occupazione tedesca della Bucovina, Celan vivrà direttamente le
deportazioni che condussero gli ebrei di
tutta Europa all'Olocausto.
Il giovane Antschel (Celan, il suo nome d'arte è l'anagramma del suo vero
cognome, in ortografica rumena Ancel) riesce a sfuggire alla
deportazione ma viene spedito in diversi campi di lavoro in Romania;
perderà però definitivamente i genitori, catturati dai nazisti: il padre muore
di tifo e
la madre viene fucilata nel campo di concentramento di Michajlovka
in Ucraina. Celan e la Bachmann si
incontrano, ancora giovani ed alle prime esperienze poetiche, a Vienna prima e
poi durante alcune sedute del Gruppo 47, che comincia la sua attività
proprio in quei primi anni del dopoguerra, in Germania. Si conoscono e si amano
e questo amore, non privo di contrasti, di abbandoni e di riconciliazioni,
durerà per molti anni, anche quando le loro vite divergeranno, la Bachmann a
Roma con Max Frisch e Celan a Parigi con la moglie Gisèle. Celan metterà fine alla sua esistenza proprio
a Parigi, sul Pont Mirabeau, da cui si getta nella Senna nella notte tra il 19
e il 20 aprile 1970. «Nella notte fra domenica e lunedì 19/20 aprile ha
lasciato il suo domicilio per non tornarvi mai più. Ho passato quindici giorni
a cercarlo dappertutto, non avevo alcuna speranza di ritrovarlo vivo. Solo il
primo maggio la polizia l' ha ritrovato (...). Io l' ho saputo solo il 4
maggio. Paul si è gettato nella Senna. Ha scelto la morte più anonima e più
solitaria (...). Non ho saputo aiutarlo come avrei voluto». Scrive così, il 10 maggio 1970, Gisèle a
Ingeborg Bachmann, che considera amica di vecchia data del poeta. Il dolore
enorme per quella morte cancella le antiche rivalità: la Bachmann aveva avuto
una relazione con Celan, iniziata a Vienna nel '48 e durata fino ai primi anni
50; poi Celan, ormai a Parigi, aveva incontrato e sposato Gisèle nel ' 52. Ma
nel '57/'58 Paul e Ingeborg avevano ripreso ad amarsi e Gisèle ne aveva sofferto.
Ora però che tutto è finito resta solo la domanda se lei ha fatto tutto il
possibile per salvare Paul. Tanto che, pochi mesi dopo, il 23 novembre (data di
nascita di Celan, ma anche anniversario della crisi in cui Paul aveva tentato
di ucciderla), Gisèle scrive di nuovo alla Bachmann. La ringrazia per le rose
che ha ricevuto («I suoi fiori sono qui: vengono da qualcuno che anche ha
sofferto per Paul e che anche ha amato Paul»). E poi dice: «Lei sa certamente
che da due anni non vivevo più con lui. Non potevo aiutarlo, soltanto
distruggermi con lui, e c'era Eric. Credo che Paul lo comprendesse talvolta. Ma
è stata molto dura. Era questa la soluzione? Ce n' era una? Quale? Ho avuto
ragione?». La Bachmann seguirà la stessa
triste sorte tre anni dopo, come si è detto, certo a causa del fuoco divampato,
non si sa per quali precise cause, nella sua casa di Roma, che la porterà ad
una lunga agonia in ospedale fino alla fine, appunto, avvenuta il 17 ottobre di
quarant’anni fa. Christa Wolf, altra grande
scrittrice tedesca, la salutava così e forse così potremmo ancora oggi
ricordarla: «È venerdì, 19 ottobre 1973, una giornata fredda e piovosa, sono le
18.30. In Cile la giunta militare ha proibito l'uso della parola 'compañero'.
Non c'è allora motivo per dubitare della efficacia delle parole. Anche se colei
che ha sempre fatto affidamento sull'uso serio delle parole non può più
ricorrere ad esse; si lascia andare e vive questi giorni in una sua frase: 'con
la mia mano bruciata scrivo sulla natura del fuoco. Ondina se ne va.' Un filo
scuro si è inserito nella trama. Impossibile lasciarlo cadere. Per raccoglierlo
è ancora troppo presto». Per onestà intellettuale cito le fonti di
cui mi sono avvalsa: Enciclopedia Treccani on line e Stampa Critica Giornalismo
Indipendente. CHIARA PASSARELLA
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