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LA FOTO DELLA SETTIMANA a cura di NICOLA D'ALESSIO
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478. IL VIAGGIATORE FANTASMA (2014) - LIBRO DI NEIL PEART di Sky Robertace Latini
E’ il racconto di “Un
anno in moto per ritrovare la vita”, come cita il sottotitolo. Una vita
smontata da una duplice disgrazia che andava rimontata. Muore una figlia di 19
anni per incidente automobilistico (1997). Dopo appena dieci mesi muore la
moglie di tumore. E’ la storia drammatica di un personaggio della musica, e
precisamente del batterista famoso degli storici Rush, gruppo di Progressive
Hard Rock canadese, in giro dal 1974 con 19 album da studio alle spalle. Neil Peart
non è solo un drummer, ha all’attivo una attitudine letteraria, che svolge come
scrittore di testi della propria band oltre ad aver pubblicato altri libri
(prima e dopo di questo).Due moto vengono cavalcate per questa avventura,
entrambe BMW. Cade, ricade. Si ferma da amici, affronta la pioggia e il fango,
viene fermato dalla polizia, e scrive. Si, scrive un diario, e anche lettere
all’amico finito in prigione, compagno di motociclettate in passato. Missive
che gli spedisce da varie parti dell’America (Canada; USA; Messico), ed
esprimendogli la fantasia di viaggiare con lui nei posti dove va. Tutto
materiale utile, dopo, per questo libro. Ma anche legge vari romanzi, tra cui
Jack London, in cui si immedesima. In questo scritto, la sua figura di
musicista appare non come punto centrale di se stesso, ma come sottolineatura
di certi momenti vissuti lungo il viaggio. Quando la descrive, spesso perché la
sente da qualche parte, si inserisce fuggevolmente nel racconto, come sfumatura
di istanti emozionali. Eppure la parola RUSH, cioè il moniker della propria
band, la scrive sempre tutta al maiuscolo. E comunque c’è anche una piccola
parte che riguarda la sua professione di batterista, quando dopo due anni di
astinenza ritorna a suonare, anche se per puro piacere, vivendola come una
prova di cui non sa quale sarà il risultato emotivo: “Era ormai tempo di
un’azione radicale, di prendere misure disperate, e avevo un ultimo rifugio da
esplorare: la batteria”. E gli accenni alla musica prendono forma in differenti
modalità; per un appassionato dei Rush che legge questa opera, cioè uno come
me, c’è sempre una tensione verso il lato musicale di Peart, che in qualche
modo viene soddisfatto, anche se non appieno. Per esempio c’è l’ascolto della
musica nei posti dove viene di volta in volta a trovarsi, come in Messico, la
cui riflessione è interessante; lì incappa in complessini o nelle trasmissioni
radio che mandano si Madonna e il pop targato USA, ma per la maggior parte si
tratta di sound locale: “Il resto della musica che si sentiva, comunque, era
musica messicana, in spagnolo, un’altra prova
della forza della loro eccellente cultura”. Cioè a dire che la musica è
l’espressione diretta della forza di una cultura, per Peart più quella che gira
nell’aria è autoctona, più significa che quella cultura sta reggendo. C’è poi
il lato psicologico della musica che vive nell’autore del libro stesso, usata
per descrivere idee e sensazioni, quella canticchiata durante la guida o in
situazioni d’osservazione. E non è mai Hard Rock (il genere suonato dai Rush),
ma spesso è Frank Sinatra. E la musica è
anche nei sottotitoli dei capitoli, in cui viene scritta ogni volta la frase di
una song dei Rush come riflessione, e quella che cito qui è quella del brano
“Everyday Glory” del 1993: “Nonostante sappiamo che il tempo ha le ali, siamo
noi quelli che devono volare”; bella frase che racconta come la fatica sia
sempre dell’essere umano. Altro concetto musicale è interno alla riflessione su
ciò che sono stati le gang di motociclisti “Hell’s Angels”; Peart è in accordo
con lo scrittore Hunter S.Thompson che li considera non un residuo del passato
legato al romanticismo di Cowboy o degli ultimi fuorilegge, ma i precursori del
punk. E infine il paragone della vita con la musica in quanto viaggio:
“Modalità JAZZ. Improvviso, costruisco il percorso mentre proseguo, ma ancor di
più reagisco agli altri musicisti che sono il tempo, le strade e il
traffico, loro sono la mia sezione ritmica. Bisogna imparare a improvvisare
invece di suonare una parte già scritta, fa parte del progetto di farsene una ragione”. Per
adattarsi alle situazioni bisogna quindi essere pronti a reagire al momento,
giorno per giorno. Ma cose di vario tipo mi hanno colpito in questa lettura,
che esulano dalla musica. E sono quelle che fanno riflettere sul senso della
vita, anche se Peart non appare un grande “filosofo”. Bello il concetto
espresso con la visione della terra che rappresenta la concretezza. Egli capisce
che forse c’è ancora speranza quando si accorge di apprezzare la forma di due
scogli sul lago. Se sa di nuovo gustare il bello, allora vuol dire che si può
continuare a vivere: “Il mio processo di costruzione del mondo deve iniziare dal
paesaggio. Dal terreno verso l’alto. 1.costruitre un mondo 2. Poi una persona
3. Poi una vita”. Per un uomo senza fede qual è Peart, i mattoni per
ricostruirsi vanno presi dalle cose della terra, senza fantasie ideologiche che
deludono”. E così cercare consolazione verso un significato più alto è una
vuota tensione: “Non mi piace la parola ACCETTAZIONE. Non accetterò mai che la
vita possa trasformarsi in questo modo”. Perché due donne meravigliose e altruiste devono non esserci più? “C’è
forse una qualche sorta di ragione? Quale? Si meritavano di morire? Mi meritavo
di perderle? Il mondo non aveva bisogno di persone come Jackie e Selena?”. Per
Peart il senso di questi eventi drammatici non esiste, si può solo creare
un’altra vita, ma questa nuova non avrà nulla a che vedere con la vecchia: “Ci
si aspetta che ci rimettiamo in sesto e che andiamo avanti, ma affrontiamo una
battaglia disperata perché in fondo non c’è niente da rimettere in sesto! Tutto
quello che eravamo, tutto quello su cui erano basate le nostre vite, tutto
quello in cui credevamo, non c’è più. Così, quelli che sono stati traditi
(dalla vita) devono ricominciare da capo, dallo zero assoluto e costruire una
nuova versione della vita con la quale possano convivere. Non ci fideremo mai
più della vita”. L’America è un paese spazioso, ma la moto s’infila ovunque.
Una cosa che mi ha fatto pensare all’Italia è come, forse proprio per la
presenza dei grandi spazi, si sia aperti ad altre prospettive. L’esempio
riguardante gli orsi forse può essere esplicativo; mentre in Trentino si uccide
una mamma orsa che ha difeso i suoi cuccioli (non credo alla tesi accidentale),
e per questo ferito un escursionista, in America i pericolosissimi Grizzly
vengono lasciati avvicinare ai centri abitati. Questo deriva dall’ampia visuale
di un mondo in cui il selvaggio viene fatto convivere col tecnologicamente
strutturato. Si uccidono cervi in primavera, abituandoli in inverno ad essere
nutriti come animali domestici, così da averli a portata di fucile all’apertura
della caccia (anche questo è descritto nell’opera), e l’isolamento è tanto
normale quanto il caos metropolitano. Non si tratta di una scrittura di alta
letteratura (tra l’altro le citazioni non mi appaiono così di livello). A volte
la modalità di scrittura appare noiosa. Ma c’è comunque di che riflettere, e si
comprende quali meccanismi mentali una persona in grande sofferenza utilizza. In
realtà alla fine tutto pare riassumersi nel bisogno di una donna. Non c’è molto
di ciò nel viaggio, solo accenni, ma la voglia di vivere torna con
l’innamoramento e la ricostruzione di un rapporto di coppia. La cosa,
frettolosamente descritta nel finale, annacqua il pathos emotivo, e realizza
una sensazione finale di banalità che è difficile da allontanare. Ad ogni modo,
dopo questa parentesi di sei anni, dal 2002 sono usciti altri tre album dei
Rush, con Peart alla batteria. E sono tre opere d’arte che non sfigurano col
loro passato, anzi, lo migliorano. Nel libro egli cita il primo dei tre: “Vapor
trails”, il cui titolo è nato proprio dall’esperienza di questo viaggio e dal
lungo momento triste del batterista, e tra le tracce una è intitolata “Ghost
Rider”. Nel libro l’inizio dei capitoli è segnato dalle foto della moto senza
pilota, appunto per segnalare un viaggiatore fantasma. Quando Peart aveva
ripreso a suonare la batteria vi riusciva come momento di sfogo, ma non era
pronto a lavorarvi, non avendo l’impostazione giusta; egli era in fuga e la
batteria era solo una espressione spontanea di un senso interiore: “ Ciò che mi
sorprese fu quello che accadde musicalmente.
Mi resi conto presto che da quei pattern a caso e dai tempi che stavo suonando,
scaturiva un “tema” più grande – stavo raccontando la mia storia. Non in
termini musicali o lirici ma, mentre suonavo un dato passaggio, pensavo: - questo rappresenta quella scena”. L’estro
creativo si fermava lì: “A questo punto la mancanza di un desiderio creativo
non è una buona né una cattiva cosa, la creatività è un lusso e non ha
nulla a che fare con la mia missione
attuale: sopravvivere”. La conclusione prevede quindi uno sdoppiamento: due
vite e due personaggi. La vita precedente è conclusa definitivamente e di essa
rimane solo un rimpianto: “quel che è perduto non si recupererà mai”. La vita
attuale, una volta ripartita, contiene un percorso separato dal Neil di prima. Qualcosa
però nel ricordo rimane intatto, e fa capire che vale la pena di soffrire per
una bella esperienza fatta, quella “di averle conosciute” (moglie e figlia).
Pena si traduce anche con dispiacere, dice Peart. Cosa sia un dolore e cosa
distrugga in un uomo possiamo solo immaginarlo. Qui però abbiamo i pensieri di
una persona colpita profondamente. Neil Peart ci ha dato questa possibilità,
quella di scrutare nella mente di un essere umano: Per lui è stata una
rielaborazione del lutto sia vivere che scrivere del viaggio; per noi lettori è
invece un condividere un evento che capiamo empaticamente. Per Peart
“mantenersi in movimento” è stata la cura. Al di là delle considerazioni morali
che non mi interessava ascoltare; leggendo mi ha interessato invece lo
strutturarsi del pensiero e delle sensazioni. E in questo, comprando il libro,
ho ottenuto ciò che volevo. Sky
Robertace Latini
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