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LA FOTO DELLA SETTIMANA a cura di NICOLA D'ALESSIO
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414. “IN VIAGGIO” mostra d’arte di Giorgio e Roberto Rapaccini (2014) di Sky Robertace Latini
“IN
VIAGGIO” mostra d’arte di Giorgio e Roberto Rapaccini (2014)
Sala FORZANI; Via Mazzini-Terni
L’artista emana
da sé la sua arte, e la mette alla mercè della gente. Ma in qualche modo egli
la rincorre, ha paura che fugga via da sé, e cerca di rimanervi in contatto, di
mantenerne il cordone ombelicale. Questo mi è automaticamente balenato alla
mente mentre vedevo Roberto Rapaccini salire le scale, andare verso le sue
opere esposte al pubblico giudizio. Ma le emozioni proprie non sono mai più
appartenenti a chi le ha prodotte; le opere diventano patrimonio comune e
altro, rispetto a ciò per le quali sono state pensate.La mostra che i due
Rapaccini hanno messo su a Terni il 31.05.2014 nella galleria “FORZANI” (via
Mazzini), è limitata per quantità ma possiede interessanti caratteristiche
artistiche. La tipologia di opere è di due generi, una forse più familiare, l’altra sicuramente
meno. Giorgio Rapaccini dipinge più classicamente con tecniche a tempera o ad
olio, realizzando degli astratti con pennellate di colore a volte rigide, altre
volte fluttuanti, per una ricerca tutta incentrata sull’effetto dei colori
sulla superficie piana. Roberto Rapaccini invece, provenendo già da una
esperienza materica, utilizza una tecnica più interagente con lo spazio, unendo
le forme col colore e con le immagini, in una espressività più dura e incisiva.
La mostra non vuole essere a tema, permette invece di gustare due approcci che
nulla hanno in comune, se non il cognome dei due artisti. Voglio adesso
soffermarmi su Roberto. Quattro sono le tipologie di opera offerta al pubblico.
Abbiamo piccoli quadretti su mattonelle in marmo; quadri affondati nelle cornici in rilievo; quadri la
cui superficie è incorniciata senza che la cornice invece venga fuori su un
altro piano; e quadri che sono incastonati da cornici non propriamente nate
come cornici. Faccio questo elenco di caratteristiche, perché secondo me ciò
non va considerato come un elemento secondario.
Perché dico questo? Perché pare sempre che la cornice non sia
decorativa, ma essenza stessa del prodotto artistico. Sulle cornici troviamo
colate di colore; segni grafici di vario tipo; anche applicazioni di oggetti e
forme. La cornice appare confine ambientale o soggetto a seconda di come si
vive la fruizione. Le immagini realizzate appaiono così unite alla materia, da
un lato vi sembrano inserite affondando nelle cornici, altre volte la materia è
il sostegno dell’immagine (le mattonelle su cui sono stampate). Nel caso delle
mattonelle in marmo il materiale media ostentatamente la raffigurazione, la
figura prende i difetti della materia, con i suoi buchi e le scheggiature, e in
tali scheggiature addirittura l’immagine brilla e interagisce con la luce
dell’ambiente, cioè della sala d’esposizione. E’ un interloquire con i nostri
occhi in maniera dinamica, che lo spettatore spostandosi determina il luccichìo
e le ombre minime mutano la loro presenza. Alcune immagini sono forti, non propriamente
disturbanti ma comunque inquietanti. Parlo in particolare del capo della
bambola, tagliata e applicata all’interno di una cornice realizzata con una
cassettina dalla serratura arrugginita. Intorno al viso della bambola una
macchia di vernice bianca, oltre alle solite gocciolanti e sinistre vernici, a
potenziare il senso di stravaganza, come una spiattellata di sangue bianco,
improbabile per un vivente ma non per una figura di finzione come una bambola;
sangue bianco appunto, finto come l’oggetto umanoide. Ma anche la ruggine della
serratura e il legno consunto danno un senso di artificiale, pur anche loro
pieni di emotività sottolineando l’idea della corruzione della materia e del marcio
che vi si accompagna. Le colate di vernice continuano a presentarsi opera dopo
opera, anche nel riquadro con la poetessa Merini dove ci sono due livelli
visivi di colata: rossa all’interno dell’immagine stessa, fotografata, e nera
fuori dell’illustrazione, a farsi più concreta ma anche più degradata, come se
dentro fosse sangue vivo e all’esterno sangue rappreso, segno del tempo che
passa. Ma anche le teste alate di angelo distruggono l’idea di rassicurazione,
sembrano angeli corrotti dalla caduta degli ideali, anche se lì la vernice è
dorata, applicata in modo non compatto, come se invece fosse consumata e quindi
solo segno di una gloria passata ormai perduta. Ci sono poi due grandi quadri, uno dei quali
con mano disegnata come ad afferrare l’aria e corpo inerme in basso, come se
l’arte non si facesse mai afferrare nel suo vero significato. Se l’uomo è
attivo nell’azione di realizzazione di un’opera d’arte, in realtà è passivo
poiché è inerme in fondo: si può dire che l’opera nasca quasi da sé. E dove non
arriva l’immagine, si usa la parola, così si scrive una poesia sulla tela: un
corpo consumato dalla vita che parla all’anima: “Anima mia” descrivendo “ciò
che resta del tuo banchetto”. Un grido di speranza verso un’anima che inizia un
nuovo percorso. Non troviamo quindi solo disturbate oppressioni, ma pure
idealità sognanti e proiettate al futuro, per quanto in sofferenza. Le
raffigurazioni di Roberto sono alquanto metalliche, nel senso di aspre; ruvide;
drammatiche; anche se mai troppo esplicite pur apparendo a prima vista dirette,
ma sono dirette come pungolo visivo non per il messaggio che portano. Infatti
non sono opere intransigenti, non si impongono in maniera esplicita, anzi, si
lasciano cullare dalle interpretazioni del fruitore. In altre parole appaiono
spartane e solide nella forma essendo molto materica nonostante le
illustrazioni stampate, ma i vari elementi si associano invece lasciando aperta
la percezione. Diventano messaggi ambigui, incerti, non chiari, in quanto le
figure nate per altri scopi qui acquistano ruolo e posizione differenti (vedi
la Coca-cola o Marylin), in una folla di entità che non vogliono farsi
prendere; non giocano all’”io sono” ma al “Sono ciò che sei tu”. E se anche
spesso tutto è chiuso in un riquadro, si tratta di foto che saltano da un luogo
ad un altro, come foto di turisti in giro per il mondo. Lo dice anche la
locandina con le parole di Josè Saramago: “Il viaggio non finisce mai” e
bisogna “vedere di nuovo ciò che si è già visto” perché poi è diverso. Nella
realtà visiva dell’arte presentata qui da Giorgio Rapaccini, invece, si narra
di un viaggio meno invasivo, relegato nella più usuale forma della tela su cui viene
posta la trama cromatica che vaga nebulosamente. Non si evince staticità, che
le morbide e liquide pennellate si fanno tenui e trasparenti, anche nei dipinti
più legati alla linea retta, come fasci di luce che penetrano le nubi. A volte
si osservano fumi inquinati, tempeste, anime in pena, folate di vento, nebbie,
scrosci di pioggia. Da questi magmi affiorano le luci, quando forti, quando
soffuse. Si notano delle stratificazioni di piani di
colore molto ben delineati, i quali producono una chiarezza narrante che non
crea confusione percettiva. Le parole dell’autore spiegano questa realizzazione
a strati come una esperienza di vicissitudini che racconta una storia che dal
passato, passando al presente, non dimentica ciò che è stato. Questa mostra
termina il 15 marzo; consiglio di viverla per gustare una breve ma intensa
esperienza emotiva, che la mente può analizzare fino ad un certo punto,
costretta poi a lasciare agli automatismi psichici la creazione di un percorso
di fruizione. Se il viaggio è il tema, il viaggio non è che ricordo, e sia
Roberto che Giorgio hanno questa propensione a non lasciarsi chiudere in una
posizione statica, ma danno alle persone sensazioni più che idee; le sensazioni
di cose vissute ma mai davvero approfondite, che devi riguardare per potervi
capire cosa vedi, come quando hai visto una piazza in cui sei stato e la fai tornare
alla mente, senza riuscire mai a focalizzarne l’essenza. Lo spirito naviga tra
le cose che l’occhio guarda. SKY ROBERTACE LATINI
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