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LA FOTO DELLA SETTIMANA a cura di NICOLA D'ALESSIO
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391. RECENSIONI di Sky Robertace Latini
Album n. 7 per una band metal progressive di alto
livello che sa costruire raffinatezze senza perdere la propria durezza. “ALL IS
ONE” uno splendido brano pieno di pathos ed enfasi. Riff netto e tonico che
sostiene una linea vocale chiara e solare, con cori femminili sinfonicamente
pensati. Bellissimo assolo del chitarrista Yossi Sassi. “THE SIMPLE MAN”
contiene tutto il fascino di un mondo sinuoso e raffinato costruito molto con
strumenti orientali. “BROTHER” gioca con la dolcezza di violini delicati sopra
una chitarra ritmica acustica. La voce raccolta possiede un timbro ed uno stile
che ricorda Anderson dei Jetrho Tull. Un folk rock atmosferico contenente senso
di malinconia. “OUR OWN MESSIAH” inizia
con degli “OOOh ooh” orientaleggianti, ma poi si tramuta in uno dei pezzi più
metal dell’album. Non c’è velocità né deflagrazioni, ma un dinamico incedere
tra riff e chitarre intrecciate; mentre la voce esegue un cantato evocativo. Al
centro si trova una parte algida dove la batteria fa i suoi piccoli giochi
percussivi prima dell’assolo di chitarra. “CHILDREN” è una piccola perla soave.
Una ballata tutta incentrata sulla voce che è accompagnata da una
strumentazione che si esprime con grande classe e senso evocatico. L’assolo
alza i toni di una canzone altrimenti molto intimista. Il finale è un crescendo
lirico ed epico. Il cantante Kobi Farhi:
“Questo è l’album in cui abbiamo voluto
rendere più chiari diversi aspetti del messaggio che cerchiamo di portare avanti
da tantissimi anni. I nostri album portano un messaggio ben preciso. Questo
disco è diretto ed immediato per riuscire a dire più cose a più persone. Le
problematiche di cui trattano i nostri album non sono piccole liti tra vicini
di casa, ma una delle più sanguinose guerre che esistano da centinaia di anni.
Credo che ognuno debba sentirsi libero senza il rischio di essere condannato e
ucciso per questo. Mi addolora che una copertina come la nostra rischi di
diventare un motivo di scandalo od orrore quando dovrebbe essere un esempio di
pace e un invito a tendersi l’un l’altro la mano. Quello che abbiamo cercato di
spiegare è la comunanza di fondo che esiste tra le tre grandi religioni
rappresentate nella cover: molta gente che si scontra per motivi religiosi
nemmeno sa le origini del proprio credo. Non abbiamo registrato un album da
“peace & love” anni ’60 pieno di testi inneggianti all’amore fraterno,
abbiamo voluto mostrare le brutture di una terra che sarebbe una delle più
belle del mondo e invece è continuamente bersagliata da guerre intestine. Alcuni
dei testi scritti per “All for one” sono
bagnati di lacrime mentre li scrivevo.
Una volta ero convinto che le nuove generazioni avrebbero piano piano
spazzato via tutto l’odio che i genitori avevano tramandato di padre in figlio,
ma vedo che i cambiamenti sono ancora troppo lenti. Dei segnali ci sono, come
gli ospedali di guerra dove lavorano sia israeliani che palestinesi, e dove
vengono curati tutti senza diviosioni di sorta. Siamo felici di saper che tra i
nostri fan non ci sia alcun tipo di barriera. Forse tecnicamente abbiamo fatto
degli album migliori, ma qui non si tratta di sfoggiare delle qualità, si
tratta di vita vissuta”. L’ultimo album, “The never ending way of Orwarrior”
del 2010, aveva caratteristiche orientali diluite in una veste occidentale;
usando i suoni orientaleggianti comuni a tanto rock da tanti anni. Qui invece
la band ha voluto fortemente sottolineare la propria appartenenza
etnico-culturale. Possiamo parlare di musica orientale metallizzata e non
viceversa. E’ un magico viaggio nel medio-oriente portato da suoni morbidi e
duri contemporaneamente. Gli aaaah aah e gli ooooh oooh, vocalizzi molto
mediorientali, si sprecano senza mai stufare ma certo enfatizzano in eccesso
questo rifarsi alla propria cultura. In verità l’album precedente appare
migliore poiché qui ci si perde, in alcuni brani minori, nei meandri di una
sonorità orientaleggiante fine a se stessa che appare più didascalica che
espressione artistica, nonostante dal punto di vista dei testi l’autore affermi
di averci messo tutto se stesso. La
copertina porta i simboli intersecati delle tre religioni monoteiste legate fre
loro culturalmente: la stella di Davide; la croce cristiana e la mezzaluna
islamica. Da qui alcune polemiche accesesi in patria. Sky Robertace Latini
***
“IV” Blackfield (Israele)
- 2013
Un album elegante, dai suoni soffusi e di quasi
tenerezza tra
note vaporose e atmosferiche stile Beatles e persino David Bowie
degli inizi (“Firefly”). Si può percepire una attitudine Progressive senza che
lo diventi mai (del resto il cantante/chitarrista inglese dei prog-rock
Porcupine Tree, Steven Wilson, è il suo stretto collaboratore nei dischi di
questo musicista israeliano). Si evince altresì un cantautorato di matrice
anglo-americana, sviluppato con molta poesia sonora. Difficile non lasciarsi
cullare da una musica così dolce, ma non crediate che sia di bassa qualità. Il
songwriting è intelligente e sentito. Ricco di sonorità, l’opera mantiene però
una propria unità in brani brevi ma intensi (il brano più lungo, “Jupiter”,
dura 3 minuti e 46 secondi, mentre si arriva ad una brevità di 1.26 con la
finale “After the rain”). “PILLS” apre
l’album e lo fa con il piglio più Progressive che si può trovare in questo
lavoro. Ricorda un po’ le cose dei Pink Floyd con una voce introspettiva sopra
un tappeto acustico e i cori suadenti. Ritmo molto lento. Una composizione
leggera ma dal forte carattere e dal pathos innegabile. La traccia più bella e
di ampio respiro; manca un assolo che la impreziosisca (me lo sarei aspettato). “SPRINGTIME” sa molto di Beatles per
songwriting e per arrangiamento. Una luce di serenità, senza alcunchè di
misterioso. Ariosa. “XRAY” è calma e
rotonda. Più che i Beatles ricorda Paul McCartney da solo, con la sofficità
rurale che lo contraddistingueva. “KISSED
BY THE DEVIL” si sviluppa con modalità leggermente elettriche ponendo il
proprio feeleing tra Beatles e Oasis, in una verve che risulta essere la
maggiormente rock del lotto. Si alterna tra una certa durezza e momenti più
morbidi. Un ottimo episodio accompagnato da una chitarra liquida. Tutto l’album supera di poco la mezz’oretta,
riducendosi al minimo possibile così come succedeva negli anni ’70. Vari pezzi
sono senza batteria, costruiti soft; ma anche dove la batteria c’è, sia ben
cadenzata (per esempio nella popsong “Sense of insanity”), sia rallentata (per
esempio in “Jupiter”), non c’è mai durezza.
Non siamo ad altezze artistiche stratosferiche; tutto suona molto
semplice ed immediato. Possiamo però amare il fatto che il risultato sia
lontano dalla banalità. Avin Geffen usa sintetizzatori e non elabora
virtuosismi (assenti gli assoli) riuscendo a non plastificare le sonorità,
eccetto forse che in “After the rain” che è anche l’unico pezzo brutto. Avin Geffen: “C’è una malinconia tutta particolare che può
provenire solo dal mio paese, abituato da sempre a convivere con la guerra e
con il terrore. Penso che nelle melodie emerga un sapore del tutto orientale.
La religione per me è un dramma. Da tempo la gioventù ha smesso di credere in
un Dio che porta morte e distruzione. Il numero degli atei come me è in
costante crescita. Vivo in Israele e mi sono abituato a vedere l’instabilità
politica e sociale. Prendo tutto con filosofia ma non con distacco. Ho dovuto
imparare sulla mia pelle a sdrammatizzare ed è per questo che le mie canzoni
hanno sempre un tono agrodolce. Così è la vita, ci sono momenti tristi e altri
più felici e bisogna saper convivere con entrambi allo stesso modo”. Sky
Robertace Latini
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