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LA FOTO DELLA SETTIMANA a cura di NICOLA D'ALESSIO
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376. RECENSIONI 2013 di Sky Robertace Latini
FEAST Annihilator (Canada) – 2013
Devo dire la
verità, non avevo mai ascoltato questa band. E’ stato grazie ad un metallaro
che me li ha proposti con entusiasmo, che ho deciso di provarne la fruizione.
Sono soddisfatto di essermi lasciato prendere dalla curiosità, ho infatti
sentito uno dei migliori album dell’anno in corso. E’ il quattordicesimo della
loro carriera, con brani che è difficile considerare minori. “DEADLOCK” si
staglia subito veloce, quadrata e senza
tentennamenti. Riff pulito con voce classicamente thrash e ritornello ripetuto
in modo secco. Il cambio di linea cantata si attornia di inserti solistici di
chitarra che non risultano la ricerca di un qualche tipo di decorazione
inutile, bensì una aggiunta di feeling e di ricchezza musicale. Nel complesso
tutto procede linearmente con energia diretta, senza perdere nulla in
efficacia. “NO WAY OUT” ha un inizio sinistro che poi lascia posto al ritmo
cadenzato con assolo di chitarra prima del cantato asciutto e spartano. Un
brano scoppiettante dall’anima rockeggiante. La ritmica è a due velocità,
infatti al centro rallenta inserendo un middle-time con una linea melodica
differente. Il ritornello è relativamente orecchiabile, misurato ma intrigante.
“SMEAR CAMPAGN” si dipana variando sulla velocità e sui passaggi variegati che
dinamizzano con stile la struttura. Sull’ipervelocità il cantato diventa
divertente. Il risultato non è prettamente legato alla tradizione moderna del
thrash, esponendo invece una attitudine heavy metal di stampo pre-thrash. Il
risultato è accattivante ed evocativo. “DEMON CODE” è più scuro come atmosfera
e parte con ritmo alla Motorhead, ma troviamo anche lo spirito Anvil.
L’andamento è incalzante ma anche qui la vena thrash tende a diluirsi col metal
più classico. Siamo di fronte ad un pezzo sicuramente trascinante con una
piccola spina schizoide che si infila nella trama compatta. In fondo la durezza
di questo disco si unisce ad un certo senso di divertimento sonoro. Non ci si
annoia e, anzi, si percepisce una band in vena. L’espressività di questo lavoro
è vitale, colorato di genuina personalità. Si avvicina allo spirito degli
ultimi Megadeth, ma mentre quelli appaiono leggermente appannati, questi
brillano in dinamismo e sanno legare la robustezza grintosa alla freschezza
interpretativa. Non è un disco di Thrash oppressivo o minaccioso, è invece
leggero dal punto di vista della fruibilità, senza abbassare mai il livello
della tonicità; prediligendo talvolta spinte di stampo Speed. La sintesi snella
poi non banalizza le composizioni, il
cui song-writing, pur nella sua essenzialità, è piacevolmente vivace. IL Thrash
classico sbanca sempre: l’anno scorso gli Overkill, quest’anno gli Annihilator.
SUPER
COLLIDER Megadeth (USA) – 2013
Questo quattordicesimo disco dal 1988, è il secondo lavoro dei
Megadeth dopo il ritorno del chitarrista ritmico Dave Ellefson nella formazione
facente parte della prima fase dei Mega. Egli non portò granchè nel lavoro
precedente a questo, che forse è non adeguato agli standard del gruppo
(“Thirteen” del 2011). “Super collider” è senza dubbio migliore; non raggiunge
il livello di “Endgame” del 2009, ma comunque sa graffiare il giusto. “BURN!”
inizia con la chitarra solista rasposa di Mustaine, ma subito inizia il ritmo
serrato non veloce che procede semplice sorreggendo la linea vocale, con
inserti solisti brevi ad arricchire la trama. E’ proprio la chitarra solista,
continuamente presente, a dinamicizzare il song-writing altrimenti poco vario,
mentre l’assolo vero e proprio è appena accennato. Un brano cadenzato di facile
presa ma efficace. “BUILT FOR WAR” tiene un ritmo sostenuto, ma sono i giri di
chitarra a smuovere le acque torbide di questo brano. Fuori della linea cantata
c’è un momento di coro epico un po’ strano per i Megadeth, ma aumenta il pathos
del brano. “OFF THE EDGE” si dipana su di un ritmo stile cavalcata che porta un
cantato tipico di Mustaine. Voci strascicate rendono più malata l’atmosfera.
L’assolo di chitarra prende la sua parte di presenza interessante senza però
essere sufficiente. Un bel pezzo che imprime forza all’album. “DANCE IN THE
RAIN” inizia con suono soft, ed infatti poi il brano non è particolarmente
duro. E’ quel tipo di song che da un certo periodo in poi (1992) Mustaine ci ha
abituato a sentire. Una melodia che non è una ballata ma che vuole cercare una
resa atmosferica introspettiva. In realtà vi sono aumenti di velocità e anche
chitarre corpose e inoltre il finale presenta un cambio di atmosfera tirata
deflagrando con aggressività. Bella la versione coverizzata di “Cold Sweat”
degli irlandesi Thin Lizzy, intrigante e piena di elettricità. I Megadeth non
sono più una band lacerante ed incendiaria, però sanno ancora tirare fuori dei
bei momenti drammatici. A volte mi sembrano quasi Hard Rock e ben distaccati
dal genere Thrash di cui fanno parte. La stessa title-track sarebbe potuta
stare dentro un disco dell’americano Ted Nugent. Più in generale porrei i
Megadeth accanto ai Motorhead, forse più per una attitudine che per il song-writing
vero e proprio (anche se spesso gli stili sono sovrapponibili, anche per la
voce di Mustaine che negli anni si è maggiormente arrochita). Era accaduto
anche l’altra volta (in “Thirteen”), per me la band è diventata appunto come
gli inglesi, soprattutto nell’atteggiamento di rimanere fermi nel proprio
stile, fedeli a se stessi, cercando un bel riff e su quello costruire un
cantato lineare. Forse, in questa lenta metamorfosi, oggi come oggi, i Megadeth
sono quelli che di più assomigliano ai Motorhead di Lemmy.
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