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LA FOTO DELLA SETTIMANA a cura di NICOLA D'ALESSIO
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369. AMNISTIA E INDULTO. ‘ABOLIRE LE CARCERI?’. UNO SCRITTO DI ANGELA DAVIS di Roberto Rapaccini
Nel nostro Paese siamo abituati alla ordinarietà delle emergenze in
quanto le compagini governative, a prescindere dalla loro matrice politica,
sono spesso incapaci di politiche
lungimiranti difronte ad un problema che si impone per la sua improcrastinabile
attenzione per varie contingenze, che vanno dalla sensibilità popolare alle
pressioni internazionali che generalmente originano da accordi. In questi casi
vengono adottati rimedi temporanei che hanno come unico fine esclusivamente
quello di procrastinare una soluzione definitiva o, almeno, non momentanea. Questo
sta nuovamente avvenendo di fronte al problema del sovraffollamento carcerario,
che determina una qualità delle condizioni di vita dei detenuti significativamente
al di sotto di uno standard degno di una società civile, peraltro
precisato, nei suoi termini minimi, in convenzioni internazionali, concluse anche
nell’ambito del Consiglio d’Europa. In questi casi il rimedio che viene
adottato consiste in provvedimenti di amnistia e/o indulto, strumenti necessari quanto inaccettabili:
necessari, in quanto non c’è altro modo per dirimere a breve la questione (ed è
quindi del tutto condivisibile il messaggio del Presidente della Repubblica in
tal senso); tuttavia, si tratta di mezzi inaccettabili perché vanificano e mortificano
l’operato della giustizia, che peraltro ha dei costi pubblici e privati di non poco
conto. È anche un errore considerare a sé stante la questione carceraria, che
in realtà va collocata nel più ampio scenario di un sistema giudiziario
inadeguato e da riformare, e di cui la detenzione è solo l’esito finale.
Probabilmente, innanzitutto, i sacri principi della legalità formale, corollari
del cosiddetto Civil Law a cui è improntato il nostro ordinamento
giuridico, sono datati e dovrebbero cedere - in parte - il passo ad una più moderna
ed efficiente giustizia, animata invece da una moderata legalità sostanziale, quale
quella che caratterizza i sistemi di Common Law nel mondo anglosassone.
Non è questa la sede per una disquisizione tecnica su questo tema, né io ho una
sufficiente e aggiornata competenza, dal momento che il mio primo incarico
professionale, prima di approdare all'Amministrazione della Pubblica Sicurezza, è stato effettivamente
quello di vicedirettore di un istituto penitenziario, ma risale al lontano 1987.
Tuttavia, affrontando le problematiche delle istituzione carceraria da un punto di vista sociale - come è più consono a
questo blog - mi è venuto in mente un interessante libro di Angela Davis , ‘Abolire le prigioni?’, edito
qualche anno fa, di cui il blog Moralia et Minimalia
dell’editore Minimum Fax ha pubblicato di recente lo stralcio che qui
trascrivo. Pur non concordando con la tesi del libro (ovvero la possibile
abolizione dell’istituzione carceraria) soprattutto per l’insostituibile funzione
di deterrenza nei confronti della commissione di un crimine operata dalla
detenzione, lo scritto, anche se si riferisce al solo sistema
carcerario statunitense, è - secondo me - un interessantissimo quanto profondo
e articolato strumento di riflessione,
anche sui fini di difesa sociale e di rieducazione che dovrebbe trovare spazio all'interno delle prigioni. Abolire la
prigione è un’utopia; tuttavia come dicevano gli intellettuali francesi nel
’68, citando una frase comunemente attribuita a Che Guevara, ‘Dobbiamo essere
realisti, cioè credere nell’impossibile’. Roberto Rapaccini
“…In gran parte del mondo si dà per scontato che chiunque sia stato
giudicato colpevole di un reato grave vada in prigione. In alcuni paesi –
compresi gli Stati Uniti – dove la pena capitale non è ancora stata abolita, un
numero piccolo, ma significativo, di persone è condannato a morte per quelli
che sono considerati crimini particolarmente efferati. Molti conoscono la
campagna per l’abolizione della pena di morte, che in effetti è già stata
abolita in quasi tutti i paesi. Persino i più strenui sostenitori della pena
capitale ne riconoscono gli aspetti controversi, e sono davvero pochi quelli
che non riescono a immaginare che si possa vivere senza di essa. Il carcere,
viceversa, è considerato un elemento inevitabile e permanente della nostra vita
sociale. I più rimangono sorpresi nel sentire che anche il movimento per
l’abolizione delle prigioni ha una lunga storia, risalente addirittura alla
comparsa del carcere come principale forma di punizione. La reazione più
naturale è quella di presumere che questi attivisti – persino coloro che si
autodefiniscono consciamente «attivisti contro il carcere» – mirino
semplicemente a migliorare le condizioni carcerarie o magari a riformare le
prigioni in maniera più radicale. Quasi ovunque, abolire il carcere appare
semplicemente impensabile e inverosimile. Gli abolizionisti vengono liquidati
come utopisti e idealisti le cui idee sono, nel migliore dei casi,
irrealistiche e impraticabili e, nel peggiore, sconcertanti e insensate. Ciò dà
la misura di quanto sia difficile immaginare un ordine sociale che non sia
fondato sulla minaccia di relegare certe persone in posti orribili allo scopo
di separarle dalle loro famiglie e comunità. Il carcere è considerato talmente
«naturale» che è estremamente difficile immaginare che si possa farne a meno.
Spero che questo libro incoraggi i lettori a mettere in discussione i loro
preconcetti a proposito del carcere. Molti sono già arrivati alla conclusione
che la pena di morte è una forma antiquata di punizione che viola i principi
basilari dei diritti umani. Penso che sia venuto il momento di incoraggiare un
dibattito analogo sul carcere. Nel corso della mia carriera di attivista contro
le prigioni, ho visto crescere la popolazione carceraria statunitense con una
rapidità tale che ormai molti membri delle comunità nere, latinoamericane e di
nativi americani hanno molte più opportunità di finire in galera che di
ottenere un’istruzione decente. Quando tanti giovani decidono di entrare
nell’esercito per sfuggire all’inevitabilità del carcere, bisognerebbe
chiedersi se non si debba tentare di introdurre alternative migliori. La
questione se il carcere sia ormai un’istituzione obsoleta è diventata particolarmente
urgente alla luce del fatto che più di due milioni di persone negli Stati Uniti
(su un totale mondiale di nove milioni) popolano attualmente le prigioni, i
penitenziari, gli istituti minorili e i centri di detenzione per immigrati.
Siamo disposti a relegare numeri sempre crescenti di persone provenienti da
comunità oppresse dal punto di vista razziale in un’esistenza isolata,
caratterizzata da regimi autoritari, violenza, malattie e tecnologie di
reclusione che producono una grave instabilità mentale? Secondo uno studio
recente, le carceri ospiterebbero il doppio di persone affette da malattie
mentali rispetto a tutti gli ospedali psichiatrici degli Stati Uniti messi
insieme. Quando iniziai a occuparmi dell’attivismo contro il carcere alla fine
degli anni Sessanta, rimasi sconcertata nell’apprendere che i detenuti erano
quasi duecentomila. Se qualcuno mi avesse detto che in tre decenni il numero
delle persone rinchiuse in gabbia sarebbe decuplicato non ci avrei creduto.
Penso che la mia reazione sarebbe stata più o meno questa: «Per quanto questo
paese possa essere razzista e antidemocratico [ricordate che durante quel
periodo le richieste del movimento per i diritti civili non si erano ancora
concretizzate], non credo che il governo degli Stati Uniti potrebbe mai
recludere così tante persone senza scatenare una potente resistenza pubblica.
No, non accadrà mai, a meno che il paese non precipiti nel fascismo». Quella
avrebbe potuto essere la mia reazione trent’anni fa. La realtà è che saremmo
stati chiamati a inaugurare il xxi secolo accettando il fatto che due milioni
di persone – un gruppo superiore alla popolazione di molti paesi – trascorrono
la loro esistenza in posti come Sing Sing, Leavenworth, San Quintino e
l’Alderson Federal Reformatory for Women. La gravità di queste cifre è ancora
più evidente se si considera che complessivamente la popolazione statunitense è
inferiore al 5% del totale mondiale, mentre gli Stati Uniti possono vantare più
del 20% dell’intera popolazione carceraria. Per dirla con le parole di Elliott
Currie, «il carcere è diventato una presenza incombente nella società
[americana] in una misura senza precedenti nella nostra storia o in quella di
qualsiasi altra democrazia industriale. Con l’eccezione delle grandi guerre,
l’incarcerazione in massa ha rappresentato il programma sociale più
compiutamente attuato dai governi dei giorni nostri». Nel riflettere sulla
possibilità che il carcere sia obsoleto, dovremmo chiederci come mai così tante
persone siano potute finire in prigione senza che ciò sollevasse dibattiti
importanti sull’efficacia della detenzione. Quando negli anni Ottanta, durante
la cosiddetta era Reagan, s’iniziarono a costruire altre prigioni e il numero
dei detenuti crebbe sempre più, i politici sostennero che il «pugno di ferro»
nei confronti del crimine – che comprendeva la certezza della pena e periodi
detentivi più lunghi – avrebbe mantenuto le comunità libere dalla delinquenza.
Tuttavia, la pratica delle incarcerazioni in massa di quel periodo sortì un
effetto scarso o addirittura nullo sui dati ufficiali relativi alle attività
criminali. Anzi, la crescita della popolazione carceraria non portò a comunità
più sicure, ma piuttosto a ulteriori aumenti della stessa. Ogni nuova prigione
ne generava un’altra. E con l’espandersi del sistema carcerario statunitense
cresceva anche il coinvolgimento delle corporation nella costruzione delle
prigioni, nel loro approvvigionamento di beni e servizi e nell’utilizzo di
manodopera carceraria. Poiché la costruzione e la gestione delle prigioni
iniziò ad attrarre ingenti capitali – dall’industria edilizia alle forniture
alimentari, all’assistenza sanitaria – in un modo che ricordava la nascita del
complesso militare-industriale, si è cominciato a parlare di un «complesso
carcerario-industriale». Prendiamo il caso della California, il cui territorio
negli ultimi vent’anni è stato invaso da strutture carcerarie. La prima
prigione statale della California fu San Quintino, aperta nel 1852.4 Folsom, un
altro noto istituto di pena, aprì nel 1880. Tra il 1880 e il 1933, quando a
Tehachapi venne inaugurato un carcere femminile, non fu costruita nessuna nuova
prigione. Nel 1952 fu inaugurato il California Institution for Women e quello
di Tehachapi diventò un altro carcere maschile. In tutto, tra il 1852 e il 1955
sorsero in California nove prigioni. Tra il 1962 e il 1965 furono costruiti due
campi di lavoro, nonché il California Rehabilitation Center. Nella seconda metà
degli anni Sessanta non fu aperta nessuna prigione e neppure durante tutto il decennio
successivo. Un massiccio progetto di costruzione di nuove strutture detentive
fu avviato invece negli anni Ottanta, vale a dire durante la presidenza Reagan.
Tra il 1984 e il 1989 furono inaugurati nove istituti di pena, compresa la
Northern California Facility for Women. Non bisogna dimenticare che c’erano
voluti più di cento anni per costruire le prime nove prigioni californiane; in
meno di un decennio quel numero è raddoppiato e durante gli anni Novanta se ne
sono aggiunte altre dodici, tra cui due penitenziari femminili. Nel 1995 è
stata inaugurata la Valley State Prison for Women, il cui intento dichiarato
era quello di «fornire 1980 posti letto per le detenute del sovraffollato
sistema carcerario californiano». Tuttavia, nel 2002 le detenute erano già
35705 e tutte le strutture femminili erano sovraffollate. Attualmente in
California ci sono trentatré carceri, trentotto campi di lavoro, sedici case di
correzione per minori e cinque piccoli centri per madri detenute. Nel 2002 le
persone incarcerate in questi istituti erano 157.979, compresi circa ventimila
individui che lo stato trattiene per violazione delle leggi sull’immigrazione.
La composizione razziale di questa popolazione carceraria la dice lunga. I
latinoamericani, che adesso sono la maggioranza, ne costituiscono il 35,2%; gli
afroamericani il 30%, mentre i detenuti bianchi sono il 29,2%.6 Attualmente ci
sono più donne in prigione nello stato della California di quante ce n’erano
nelle carceri di tutto il paese all’inizio degli anni Settanta. Anzi, la
California può vantare il carcere femminile più grande del mondo, la Valley
State Prison for Women, che conta più di 3500 recluse. Situato nella stessa
città della Valley State e letteralmente dirimpetto a questa, c’è il secondo
carcere femminile del mondo per grandezza – la Central California Women’s
Facility – la cui popolazione nel 2002 è arrivata anch’essa alle 3500 detenute
circa. Se si osserva su una carta della California la posizione delle trentatré
prigioni statali, si può vedere che l’unica area che non sia densamente
popolata di strutture detentive è quella a nord di Sacramento, anche se nella
città di Susanville ci sono due carceri e nei pressi del confine con l’Oregon
sorge Pelican Bay, uno dei famigerati supercarceri di massima sicurezza.
L’artista californiano Sandow Birk, ispirato dalla colonizzazione del
territorio da parte delle prigioni, ha prodotto una serie di trentatré quadri
raffiguranti questi istituti e il paesaggio circostante e li ha raccolti nel
libro Incarcerated: Visions of California in the Twenty-First Century. Ho
raccontato brevemente come il territorio della California sia stato invaso
dalle strutture carcerarie per consentire ai lettori di comprendere quanto sia
stato facile realizzare un massiccio sistema detentivo con l’assenso implicito
dell’opinione pubblica. Perché la gente ha creduto così facilmente che
rinchiudere una porzione sempre più vasta della popolazione statunitense
avrebbe aiutato quanti vivono nel mondo libero a sentirsi più sicuri e
protetti? È possibile formulare questo interrogativo anche in termini più
generali: perché le prigioni danno alle persone l’idea che i loro diritti e le
loro libertà siano più tutelati di quanto non lo sarebbero se il carcere non
esistesse? A quali altre ragioni potremmo attribuire la rapidità con cui le
prigioni hanno iniziato a colonizzare il territorio californiano? La geografa
Ruth Gilmore descrive l’espansione delle prigioni in California come «una
soluzione geografica a problemi socioeconomici». La sua analisi del complesso
carcerario-industriale in California descrive questi sviluppi come una reazione
a un’eccedenza di capitali, terreni, manodopera e capacità produttiva di quello
stato. Le nuove prigioni californiane sorgono su terreni rurali deprezzati,
perlopiù appezzamenti agricoli un tempo irrigati… Lo stato ha acquistato la terra messa in
vendita da grandi proprietari terrieri. E ha garantito alle piccole città
depresse su cui ora incombono le prigioni che quella nuova industria non
inquinante e a prova di recessione avrebbe dato una spinta alla ripresa locale.
Ma, come fa notare la Gilmore, non si sono visti né nuovi posti di lavoro né la
più generale rivitalizzazione dell’economia promessa dalle prigioni. Queste
promesse di miglioramento ci aiutano però a capire perché il parlamento e gli
elettori della California abbiano deciso di approvare la costruzione di tante
nuove carceri. La gente voleva credere che le prigioni non solo avrebbero
ridotto il crimine, ma avrebbero anche fornito posti di lavoro e stimolato lo
sviluppo economico di località sperdute. Fondamentalmente, la questione è una:
perché diamo per scontato il carcere? Anche se solo una parte relativamente
esigua della popolazione ha sperimentato in prima persona la vita all’interno
di un carcere, per le comunità povere nere e latinoamericane non si può parlare
di piccole percentuali. E nemmeno per gli amerindi o per certe comunità di
asiatici americani. Ma perfino tra queste persone – soprattutto giovani –
costrette purtroppo ad accettare la condanna al carcere come una dimensione
normale della vita nelle loro comunità, difficilmente si trova chi accetti di
impegnarsi in un serio dibattito pubblico sulla vita in carcere o su
alternative radicali alla detenzione. È come se si trattasse di un fatto inevitabile
dell’esistenza, come nascere e morire. In generale, si tende a dare il carcere
per scontato. È difficile immaginare la vita senza di esso. Al tempo stesso,
c’è riluttanza ad affrontare le realtà che nasconde, si ha timore di pensare a
ciò che accade al suo interno. Di conseguenza, il carcere è presente nella
nostra vita e allo stesso tempo ne è assente. Riflettere su questa
presenza-assenza significa iniziare a riconoscere il ruolo svolto
dall’ideologia nel plasmare le nostre interazioni con l’ambiente sociale che ci
circonda. Diamo per scontate le prigioni, ma spesso abbiamo paura di affrontare
le realtà che producono. Dopotutto, nessuno vuole finire in galera. Siccome
sarebbe troppo penoso accettare l’eventualità che chiunque, compresi noi
stessi, possa diventare un prigioniero, tendiamo a considerare il carcere come
qualcosa di avulso dalla nostra vita. Ciò vale perfino per alcuni di noi, donne
e uomini, che già hanno sperimentato la detenzione. E così pensiamo al carcere
come a una sorte riservata ad altri, ai «malfattori», per usare un termine reso
popolare di recente da George W. Bush. Dato il persistente potere del razzismo,
nell’immaginario collettivo i «criminali» e i «malfattori » sono persone di
colore. Perciò il carcere funziona ideologicamente come un luogo astratto in
cui vengono presi in consegna gli individui indesiderabili, sollevandoci dalla
responsabilità di riflettere sulle reali problematiche che affliggono le
comunità da cui i detenuti provengono in numeri così spropositati. È questa la
funzione ideologica del carcere: ci solleva dalla responsabilità di affrontare
seriamente i problemi della nostra società, in particolare quelli prodotti dal
razzismo e, in misura crescente, dal capitalismo globale. Cosa ci sfugge, per
esempio, se cerchiamo di pensare all’espansione del sistema carcerario senza
prestare attenzione agli sviluppi economici più vasti? Viviamo in un’era in cui
le corporation migrano. Per sottrarsi alla manodopera organizzata di questo
paese – e quindi a salari più alti, contributi da versare e via dicendo – le
corporation girano il mondo in cerca di nazioni che offrano sacche di
manodopera a basso costo. E migrando, le corporation lasciano nei guai intere
comunità. Un gran numero di persone perde il lavoro e ogni prospettiva di un
impiego futuro. L’istruzione e altri servizi sociali superstiti sono
profondamente influenzati dalla distruzione della base sociale di queste
comunità. Il processo trasforma gli uomini, le donne e i bambini che vivono in
tali comunità danneggiate in candidati perfetti per il carcere. Intanto, le
corporation collegate all’industria penitenziaria mietono profitti dal sistema
che gestisce i detenuti, e sono quindi chiaramente interessate alla continua
crescita della popolazione carceraria. In parole povere, questa è l’era del
complesso carcerario-industriale. Le prigioni sono diventate buchi neri in cui
vengono depositati i detriti del capitalismo contemporaneo. L’incarcerazione in
massa genera profitti divorando al tempo stesso il patrimonio pubblico, e tende
perciò a riprodurre proprio quelle condizioni che portano la gente in prigione.
Esistono quindi collegamenti reali e alquanto intricati tra la
deindustrializzazione dell’economia – uno sviluppo che ha raggiunto il culmine
negli anni Ottanta – e la reclusione di massa, cresciuta durante l’era Reagan-
Bush. Tuttavia, l’esigenza di un maggior numero di prigioni è stata presentata
al pubblico in termini semplicistici.Servivano più prigioni perché la
criminalità era aumentata. Eppure molti studiosi hanno dimostrato che nel
momento in cui è iniziato il boom della costruzione di nuove carceri, le
statistiche ufficiali rivelavano già una diminuzione della delinquenza. Inoltre
erano entrate in vigore leggi draconiane sulla droga, e diversi stati stavano
introducendo norme che prevedevano pene molto severe per i recidivi. Per
comprendere la proliferazione delle prigioni e l’ascesa del complesso
carcerario-industriale, potrebbe essere utile riflettere più a fondo sui motivi
per cui diamo così facilmente per scontato il carcere. In California, come
abbiamo visto, quasi i due terzi delle prigioni esistenti sono state inaugurate
negli anni Ottanta e Novanta. Perché non si sono levate energiche proteste?
Perché la prospettiva di molte nuove prigioni era visibilmente gradita
all’opinione pubblica? Una risposta parziale a questo interrogativo è collegata
al modo in cui consumiamo immagini mediatiche del carcere nonostante il fatto
che le realtà dell’incarcerazione rimangano celate a quasi tutti coloro che non
hanno avuto la disgrazia di scontare una pena detentiva. La critica culturale
Gina Dent ha sottolineato come il nostro senso di familiarità con il carcere
derivi in parte dalle rappresentazioni delle prigioni nei film e in altri mezzi
visivi. La storia delle immagini mentali collegate al carcere contribuisce a
rafforzare l’istituzione carceraria come una parte naturalizzata del nostro
paesaggio sociale. La storia del cinema è sempre stata sposata alla
rappresentazione dell’incarcerazione. I primi filmati di Thomas Edison (che
risalgono alla ricostruzione del 1901 Execution of Czolgosz with Panorama of
Auburn Prison, presentata come un cinegiornale) comprendevano sequenze dei
recessi più oscuri della prigione. Perciò il carcere è indissolubilmente legato
alla nostra esperienza visiva, il che crea anche il senso della sua continuità
come istituzione. Abbiamo inoltre un flusso costante di film hollywoodiani sul
carcere che costituiscono di fatto un genere a sé stante. Alcuni dei film più
noti sulle prigioni sono: Non voglio morire, Papillon, Nick Mano Fredda e Fuga
da Alcatraz. Vale anche la pena di accennare al fatto che la programmazione
televisiva è sempre più satura di immagini di carceri. Tra i documentari
recenti figurano la serie su a&e The Big House, costituita da programmi
dedicati a San Quintino, Alcatraz, Leavenworth e all’Alderson Federal
Reformatory for Women. La serie Oz, trasmessa per più stagioni dalla rete hbo,
è riuscita a convincere molti telespettatori di sapere esattamente cosa accade
nelle carceri maschili di massima sicurezza. Ma anche quanti non scelgono
consapevolmente di guardare documentari o sceneggiati dedicati alle prigioni si
ritrovano, volenti o nolenti, a consumare immagini del carcere per il semplice
fatto di andare al cinema o accendere la tv. È praticamente impossibile
evitarle. Nel 1997, intervistando alcune donne in tre prigioni cubane, ho
scoperto con stupore che la maggior parte descriveva la percezione del carcere
che avevano in precedenza – vale a dire prima di finire in prigione loro stesse
– come derivante dai molti film hollywoodiani che avevano visto. Tra le
immagini che popolano la nostra mente, il carcere occupa dunque un posto di
rilievo. Ciò ci ha indotto a darne per scontata l’esistenza. La prigione è
diventata un ingrediente chiave del nostro senso comune. È presente, tutto
intorno a noi. Non mettiamo in dubbio che debba esistere. Fa talmente parte del
nostro mondo che ci vuole un grande sforzo d’immaginazione per concepire la
vita senza di essa. Con ciò non intendo ignorare i cambiamenti profondi
verificatisi nel modo in cui sono condotti i dibattiti pubblici sul carcere.
Dieci anni fa, nel momento in cui la spinta ad ampliare il sistema carcerario
raggiungeva il culmine, erano ben poche le critiche a questo processo che
raggiungevano l’opinione pubblica. Anzi, la maggior parte della gente non aveva
idea dell’immensità di quell’espansione. Era un periodo in cui i cambiamenti
interni – in parte dovuti all’applicazione di nuove tecnologie – spingevano il
sistema carcerario statunitense in una direzione più repressiva. Mentre le
precedenti classificazioni si limitavano a bassa, media e massima sicurezza, in
quel periodo fu inventata una nuova categoria: il supercarcere di massima
sicurezza. La svolta verso una maggiore repressione nel sistema carcerario,
caratterizzato fin dall’inizio della sua storia dai suoi regimi repressivi,
indusse alcuni giornalisti, opinionisti ed enti progressisti a opporsi al
crescente affidamento sulle prigioni come mezzo per risolvere problemi sociali
che sono in realtà esacerbati dall’incarcerazione in massa. Nel 1990, il
Sentencing Project, con sede a Washington, ha pubblicato uno studio sulla
popolazione statunitense detenuta, in libertà vigilata o rilasciata su
cauzione, in cui si concludeva che un nero su quattro di età compresa tra i
venti e i ventinove anni rientrava in queste categorie. Cinque anni dopo, un
secondo studio rivelava che la percentuale era salita a quasi uno su tre
(32,2%). Inoltre, più di un latinoamericano su dieci nella stessa fascia di età
era detenuto, in libertà vigilata o rilasciato su cauzione. Il secondo studio
evidenziava anche che il gruppo che aveva conosciuto l’incremento maggiore era
quello delle donne nere, la cui carcerazione era cresciuta del 78%. Secondo il Bureau of Justice Statistics,
attualmente gli afroamericani nel loro insieme rappresentano la maggioranza dei
prigionieri statali e federali, con un totale di 803.400 detenuti neri, 118.600
in più del totale dei detenuti bianchi. Alla fine degli anni Novanta, articoli
importanti sull’espansione delle prigioni sono apparsi su Newsweek, Harper’s,
Emerge e Atlantic Monthly. Perfino Colin Powell ha sollevato la questione del
crescente numero di detenuti neri di sesso maschile nel suo discorso alla
Convention Nazionale Repubblicana del 2000 che ha proclamato la candidatura di
George W. Bush alla presidenza. Negli ultimi anni, l’assenza di posizioni
critiche sull’espansione delle prigioni ha lasciato spazio, nell’arena
politica, a proposte per una riforma del sistema carcerario. Anche se il
dibattito pubblico si è fatto più flessibile, l’enfasi è quasi sempre posta
sull’introduzione di cambiamenti che producano un sistema migliore. In altre
parole, l’accresciuta flessibilità che ha permesso una discussione critica dei
problemi associati all’espansione delle prigioni limita tale discussione alla
questione della riforma carceraria. Per quanto importanti possano essere certe
riforme – l’eliminazione degli abusi sessuali e dell’incuria sanitaria negli
istituti femminili, per esempio – alcuni modelli fondati esclusivamente sulle
riforme contribuiscono a generare l’idea vanificante che non esistano
alternative al carcere. Quando è la riforma a diventare la questione centrale,
i dibattiti sulle strategie di scarcerazione, che dovrebbero rappresentare il
punto focale della nostra discussione sulla crisi delle carceri, tendono a
essere messi da parte. La questione più
immediata, oggi, è come evitare un’ulteriore espansione della popolazione
carceraria e come riportare quanti più uomini e donne detenuti in quello che i
prigionieri chiamano «il mondo libero ». Come possiamo muoverci per
depenalizzare l’uso di stupefacenti e la prostituzione? Come possiamo
intraprendere delle strategie giudiziarie serie, che siano volte al recupero
anziché esclusivamente alla punizione? Tra le alternative efficaci c’è la
trasformazione sia delle tecniche per affrontare il «crimine» sia delle
condizioni socioeconomiche che spingono in riformatorio e poi in carcere tanti
figli delle comunità povere e in particolare delle comunità di colore. La sfida
più ardua e urgente, oggi, è quella di esplorare territori nuovi della
giustizia, nei quali le prigioni non fungano più da nostro principale punto
fermo…” (Angela Davis, Aboliamo le prigioni? Contro il carcere, la discriminazione,
la violenza del capitale, Minimum Fax, Roma, 2009)
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WEBMASTER: Roberto RAPACCINI
A chi può procedere malgrado gli enigmi, si apre una via. Sottomettiti agli enigmi e a ciò che è assolutamente incomprensibile. Ci sono ponti da capogiro, sospesi su abissi di perenne profondità. Ma tu segui gli enigmi.
(Carl Gustav Jung)
3 commenti:
Credo che gli intellettuali francesi al quale si riferisce lei siano gli strutturalisti e in particolare Michel Foucault (che scrisse Sorvegliare e Punire). Non sono esperto della filosofia degli autori precedentemente citati, di sicuro il libro Sorvegliare e Punire poneva domande stimolanti sull'istituzione carceraria, tanto da stimolare la sinistra extraparlamentare italiana degli anni '70 (fino ad oggi, visto che Ascanio Celestini, noto anarchico, mira all'abolizione del sistema carcerario). Non sono ancora così competente da giudicare con certezza, di sicuro però tutto ciò che riguarda la società deve essere messo in discussione per migliorarla. Di fatto in Italia sono per lo più immigrati e persone con pene minori ad essere incarcerati, e per loro, oltre che leggi migliori, ci vorrebbero (secondo me) depenalizzazioni di alcuni reati e/o progetti di recupero come il carcere di Bollate (del quale ho sentito dire bene perché mira a reintegrate i detenuti con il lavoro, e fin'ora è l'unico carcere senza suicidi di detenuti). Certo il carcere non puo' e non deve divenire un'agenzia interinale, né l'attuale crisi economica fa sperare che ci possa essere un impiego certo per chi esce dal carcere, però il punto centrale dell'articolo di Angela Davis, che è quello che credo anch'io sia vero (almeno per come l'ho colto io), è che nella società di adesso è diventato come il contenitore degli emarginati e degli immigrati, lasciati in mano a se stessi e alla brutalità della vita carceraria. Angela Davis è una storica "membra" della sinistra radicale americana e come tutti coloro che appartengono alla sinistra non istituzionale vede il carcere come una forma di repressione statale degli individui che sono giudicati colpevoli da un'autorità che si arroga il diritto di poter giudicare e punire, perciò non puo' non vedere come simbolo di oppressione e di potere istituzionale. Foucault, se non ricordo male, ci vedeva anche una certa soluzione di ripiego rispetto alle pene corporali pubbliche per i condannati, poiché intorno al XVIII secolo si è andato sempre di più condannando tali "punizioni" da parte degli intellettuali prima e della società poi, da quel momento lo Stato avrebbe preferito nascondere agli occhi pubblici la sofferenza del condannato, chiudendola all'interno del carcere per non creare sdegno nell'opinione pubblica, ma mantenendo comunque la consapevolezza verso la stessa opinione pubblica della certezza dell'esistenza della pena. Io non saprei confutare o avvalorare tali tesi, di sicuro però il punto centrale è, il carcere rappresenta la misura in cui lo Stato afferma il suo potere di garante della sicurezza oppure è solo un'eredità dello Stato assoluto che governava per il proprio fine? Nonché è necessario il sistema di giudizio "Colpevole/Innocente" per il mantenimento della convivenza pacifica all'interno di una società? Sono domande al quale al momento non sono in grado di rispondere purtroppo (Mi scuso per la lunghezza del post, per eventuali inesattezze, e per un eventuale scarsità di senso nelle mie parole, sono felice di essere corretto).
Caro Francesco, il tuo commento è molto ben articolato e profondo, e coglie il senso del post, in quanto il mio – forse ambizioso - obiettivo, nei limiti miei e dell’utenza del blog e di Facebook, era proprio quello di risvegliare il dibattito sull’istituzione carceraria ad un livello più alto. In altri termini, oggi il problema si riduce al numero di metri quadrati che ha un detenuto, ai servizi igienici che ha a disposizione, alle polemiche sull’applicazione eccessiva o restrittiva, secondo i punti di vista, di certi istituti ( vedi legge Gozzini), ed è giusto, perché questi sono problemi concreti. Ma in passato, come giustamente lasci intendere tu, queste discussioni erano il momento terminale di un più ampio dibattito che coinvolgeva scienze umanistiche come la sociologia e la filosofia, sull’estensione della difesa sociale, sul reale fondamento della colpevolezza, sulla deterrenza della punizione, etc. In questo ambito contributi come ‘Asylums’ di Goffman furono basilari. Oggi, invece che tuffarci direttamente sull’emergenza, per essere più lungimiranti dovremmo ripartire da queste discussioni per approdare a soluzioni reali e più ‘giuste’. E lo scritto di Angela Davis mi è sembrato che potesse servire a questo. Angela Davis è utopistica? Dal mio punto di vista sicuramente. Però non dobbiamo dimenticarci che prima che Franco Basaglia pubblicasse ‘l’istituzione negata’, una società senza manicomi sembrava impossibile. Invece l’utopia era molto più contreta della realtà. Spero di aver risposto alla tua richiesta di precisazioni. Prima di augurarti buona giornata, vorrei chiedere una cortesia. Puoi copiare il tuo commento anche nei commenti al post nel blog Spiritualità e arte? Buona giornata!
Molto interessante. Non possiamo certo risolvere il problema delle carceri in un mondo che ha perso parte della cognizione del vivere sociale e dei suoi principi civili. Va ricostruito un tessuto sociale in cui poi anche il sistema di rieducazione e inserimento possa avere il suo significato. La riflessione sulla carcerazione è una riflessione sulla struttura e la concezione sociorelazionale della popolazione.
Roberto Latini
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