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LA FOTO DELLA SETTIMANA a cura di NICOLA D'ALESSIO
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356. RECENSIONI ALBUM BURNING RUINS 2013 di Sky Robertace Latini
“ASHES
OF WAR” Firbholg (Italia-Foligno) –
2012 - Secondo lavoro della band
Secondo
lavoro della band. Non una produzione perfetta, ma un sapore di stampo
bohemien, in cui si personalizza un Black Metal quasi pittorico. Questo
progetto è la narrazione di una saga epica
ambientata in una terra chiamata Mishall: nel primo album c’è la ricerca
di una “gemma nera”, mentre qui le vicende riguardano la difesa del regno di
Talash. Il moniker del gruppo (Firhblog) è quello del popolo nomade che
discende dai due guerrieri che hanno iniziato la storia.
“SWORDMAN”
contiene una scintilla di energia e contemporaneamente una atmosfera rarefatta
che si fondono in un 4/4 lineare che è perfettamente funzionale al brano. E’ un pezzo che possiede anche riflessi anni
’80 e dove le tastiere sono indispensabili, aiutando la raffinatezza globale
che si percepisce anche nel terminare con suono pianistico. “IN THE BLACKEST
DUNGEON” è una composizione che usa parecchia rabbia nonostante molto si basi
su una essenza folk-metal. I ritmi cambiano almeno 5 volte senza però
allontanarsi dalla continuità stilistica. Brano dinamico ed efficace. “THE
SHADOWS SONG” appare come la naturale continuazione della traccia precedente ma
con un feeling più dark e oppressivo. Un black-doom compresso e graffiante grazie anche allo
screaming melmoso che successivamente evolve in una esplosione ruggente, ma
altrettanto oscura dove la voce dallo scream passa al growl corposo. “BEYOND
ALL HOPES” usa , come anche era successo in “In the blackest dungeon”, un ritmo
da tarantella che aumenta il senso folk. La batteria cambia anche in altri
connotati ma rimane in qualche modo nella evocazione folk fino al suo
rallentamento dove il pathos si fa struggente. La parte finale cerca un sound
più soft ma non in stile ballata, è anch’esso un buon momento folk, che riesce
comunque a rimanere nel solco dell’asprezza. Brani minori: “Intro + Wolmos
gathering” è la traccia che inizia l’album; intro e brano in sè contengono un
incipit epico-sinfonico. Il Growl del cantato gratta cattivo ma sembra l’unico
elemento BlackMetal, dato che la musica rientra in canoni tradizionalmente più
Heavy Metal, persino leggermente N.W.O.B.H.M. quindi assolutamente non estremo.
Nel complesso è un imprinting forte per l’album, anche se non appare
personalissimo. “Faraway realm”, nel quasi Iron-maideniano afflato, usa un
blasting batteristico incessante che avvolge algido l’ascoltatore, passando poi
ad un middle-time con un riff anni ’80, su cui si innesta un giro folk un po’
banale. Il brano dà l’idea di non essere stato sviluppato al meglio, e rimane
l’episodio meno riuscito del disco. “Ashes of war” può rientrare nel più
classico Black Metal, rimanendo pulito e usando variazioni sul tema ben
collegate. Manca uno scatto improvviso a caratterizzare il brano che invece è
bloccato in un songwriting senza alti e bassi. Io ero in attesa come se dovesse
succedere qualcosa. “A Dying empire-Domination” chiude nel modo giusto il
lavoro, con una arrembante cascata di furia, scaldata inizialmente con suoni
morbidi. I clangori della distruzione finale sono l’automatico epilogo di un
pezzo da battaglia. Però dentro la song si trovano passaggi raffinati che si
collegano tra loro in modo da mantenere fluida la trama e rendere la durezza
della composizione meno soffocante. Tutta la traccia dà l’idea un po’ di già
sentito ma nell’insieme regge, creando tra i suoni della guerra anche un po’ di
malinconia. Possiamo dire che si tratti di un unico brano, più che di una
raccolta di canzoni. L’album va ascoltato nella sua interezza come un viaggio
le cui atmosfere avvolgenti tracciano un unico sentiero e una unica
destinazione. Ciò che viene fuori è una attenzione alla globalità delle
sensazioni più che una caratterizzazione dei pezzi per differenziarli; e anche
dove singolarmente i pezzi non eccellono, il fatto di entrare nel racconto
sonoro in modo continuativo, elimina le debolezze compositive e riesce a
coinvolgere l’ascoltatore attento, fino a farlo passare ad uno stato di pseudo-trance.
In tutto il lavoro c’è un contrasto stilistico tra morbido e duro che viene
sviluppato non in momenti separati ma simultaneamente, soprattutto per la
presenza delle tastiere. La struttura è
circolare e le ripetizioni ipnotizzano. A rafforzare il senso narrativo come un
unicum stanno anche i testi che realizzano un concept album. A parte alcune
ingenuità, mi pare che la band sappia coniugare l’ispirazione con la tecnica.
La voce di Sir Woluk, che di base è Scream sconfinando talvolta in suoni più
gutturali, mi piace perché rimane comunque intelleggibile. Musicalmente non
parlerei di Black Metal puro, ma non solo per la presenza di sonorità folk o
epiche, ma anche per i continui agganci col metal degli anni ’80, e infatti se
di Black vogliamo parlare, a volte sono vicini ai riff dei Venom meno
accelerati; da essi però si allontanano per le aperture di ampio respiro. Sky
Robertace Latini
***
“DRONES OF THE AWAKENING” Eyeconoclast (Italia-Roma) - 2013
Sono
rimasto sorpreso positivamente, perchè rispetto alla giornata dal vivo a cui ho
assistito, l’album riserva una certa dose di ricercatezza. Un Death metal
selvaggio ma realizzato con ordinata follia. Siamo di fronte ad un muro di
compatta furia, ma assolutamente intelleggibile. Brani minori: “Proclaiming
from dead dimensions” è un pezzo devastante
che sfreccia con il suo blasting furioso. E’ perfetto per aprire l’album
e presentare l’impeto che poi è presente per tutto il disco. Non è male. “Anoxis
waters” accenna un suono quasi industrial, ma è insufficiente a rendere
efficace la song, che risulta violenta ma non molto personale.“Obsolesced” è
forse la traccia meno bella, troppo poco caratterizzata, diciamo derivativa. Mi
piace in alcuni momenti la batteria, quando è meno scatenata ma sottolineatrice
dei passaggi sonori. “Hallucinating in genetic disarray” lascia un po’ da parte
la velocità per adagiarsi prevalentemente su un middle-time pesante. I cambi di
ritmo però sono presenti anche qua. Il brano è interessante pur mancando di
picchi espressivi. Sembra monco, non sviluppato del tutto. “Invoking carnage
(racing blind)” è un brano di medio valore basato sul groove e con pochi
inserti ad effetto. “Executioner (slayer of the light) vuole chiudere l’album
con ferocia (che poi non è maggiore che negli altri pezzi) ma cade nella
banalità sebbene abbia buoni spunti (come l’assolo chitarristico alla
Motorhead). Forse con “Obsolesced” è l’episodio meno valido. “RISE OF THE
ORGAMECHANISM” è distruttore come la prima traccia, ma è più punkeggiante nel
cantato, con uno sviluppo più variegato nel groove. “DAWN OF THE PROMETHEAN
ARTILECT” continua con la velocità ma è interessante per gli inserti riffici.
E’ cupo in vari passaggi growl, ma la chitarra solista appare più aperta nei
due momenti in cui si presenta, anzi, nel finale diventa quasi melodica, e
alleggerisce un brano invece tra i più furibondi. Il pezzo è dinamico e riesce
ad avere un sua linearità nonostante la pienezza sonora. “SHARPENING OUR
BLADES ON THE MAINSTREAM..” utilizza
meno il blasting ipertecnico per una batteria a volte più cadenzata, ma
nell’insieme è il pezzo dove la sezione ritmica mi piace di più. Groove
d’effetto e composizione di più ampio respiro. Più vicino al Thrash che al
Death. “XXX-MANIFEST OF INVOLUTION” è una canzone divertente. Solo uno educato
all’ascolto metal riesce a percepire come funny un suono così cupo e virulento.
Bella la parte dove la batteria gioca coi riff e quella con l’assolo, situazioni migliori
rispetto alla linea vocale. “MOTHER GENOCIDAL MACHINE” presenta fra i suoni
anche una chitarra melodica che tesse una trama sottostante la ritmica
incessante e i molteplici riff. Buonissima l’espressività vocale data dalla
fusione di growl e scream che si alternano rapidamente. Un album interessante e
costruito con una ottima produzione pulita. Anche il cantato, quando passa dal
growl allo scream lo fa con grande abilità, voce corrosiva gestita bene (che
non mi pareva così pulita al “Burning Ruins…”). Gruppo che non mi ha ispirato
al festival che però rivaluto all’ascolto di questo lavoro. Nonostante la
velocità; la corposità del suono piena di “cose”, e i molti cambiamenti di
ritmo e di riff, non c’è caos. C’è varietà, ma in modo composto, mai
disordinato, ciò rende il sound assimilabile ed efficace. Sky
Robertace Latini
***
“REQUIEM FOR US ALL” Modern Age Slavery (Italy-Emilia Romagna) - 2013
E’
strano come un bell’effetto dal vivo non si tramuti in dischi all’altezza. C’è
tecnica e potenza, ma il songwriting non sempre risulta efficace. Un Death
Metal che ama toccare anche le corde Black, spietato quindi e oscuro al
contempo. Nell’insieme non banale, ma che oltre ad essere furioso avrebbe
dovuto trovare soluzioni più creative. Quando ci prova ci riesce. “OBEDIENCE”
alza il livello dell’album con un bel pezzo variegato e pieno di atmosfera
oscura. Non è solo violenza rude, è invece capace di portare una certa
raffinatezza di groove e di effetti. Sfiora l’Industrial con la sua produzione
pulita. Il cambio di ritmo al termine è troppo breve, doveva preludere a
qualcosa di maggiormente consistente, infatti nell’ascoltarlo mi si è creata
una aspettativa delusa dal finale monco. Si trattava di una sonorità
strisciante e disturbante che meritava più attenzione. “”IVORY CAGE” è forse il
momento più esaltante del disco. Molti i cambi di ritmo e la voce alza il tono
anche verso lo scream, evitando l’appiattimento sonoro. La base ritmica è
quella che piace a me, senza esagerare col blasting. Death e Black si mescolano
con grande sensibilità, e insieme ne aumentano il pathos drammaturgico, fino ad
arrivare ad un doom pesante e ruvido che mette fine alla traccia. “OPIATE FOR
THE MASSES” è invece la song dove il blast-beat ci sta alla perfezione. Ritmo
tiratissimo (ma che sa cambiare) e anche riffing pieno che riesce a dinamizzare
con eccellenza un arrangiamento ricco. Ricchezza anche vocale con le sue
incursioni corali e di sofferenza lacerante. “ICON OF A DEAD WORLD” usa un
middle-time dal groove ganzo, ma la linea vocale è perdente, poco
caratterizzata. Non basta andare sullo scream per arricchirlo. Non male come
composizione, però a volte sembra che si sarebbe fatto meglio a far tacere il
cantato lasciando agli strumenti la trama che povera non è. Bello il finale
riverberato, pregno di tenebroso horror che dà perfettamente l’idea di “mondo
morto”, col quel growl morboso e funereo che stavolta è usato con
discernimento. Un assolo maligno di chitarra ci sarebbe stato benissimo, perché
ragazzi, non avete mai quella scintilla in più? Brani minori: “Requiem for us
all” (prima traccia) è un susseguirsi di scariche violente, accompagnato da un
growl poderoso ma troppo abbaiante; nel complesso troppo piatta. “The dawn
prayer” è in linea con la prima traccia, anche se leggermente più interessante
e varia. A salvarla sta l’unico assolo dell’album, breve ma fresco. “The silent
death of cain” si cimenta in secca
brutalità, con un blast beat troppo esagerato, che rende asfittica l’atmosfera
simil Black Metal. Ne prerisco la seconda parte, cadenzata nel tempo medio,
dove non si doveva assolutamente cantare; viveva bene da sola e aveva la sua
bellezza. Per poco non l’ho posta tra gli episodi migliori. “Slaves of time”
perde in freschezza. Un brano compatto con alcuni bagliori interessanti che
però non lo salvano da una certa scarnezza. “Requiem for my nation” traccia
musicalmente inutile. C’è una bella versione della cover dei Sepultura: “Arise” è fatta bene. La musica è bestiale ed estremamente malata,
in questo disco assolutamente anticommerciale. Un cantato troppo coprente. La
parte strumentale sembra troppo spesso solo un accompagnamento della parte
vocale. Il growl e lo scream, tecnicamente, non sarebbero male, ma sono le
linee cantate a non donare il meglio della band. Troppa inflazione di voce,
usata sempre e comunque, mentre spaziare di più con la strumentazione avrebbe
giovato (si sente che ne sarebbero capaci). A volte il blast-bite, altre volte
il cantato, rendono soffocato l’effetto sonoro, e non nel senso positivo che
Black e Death devono avere. Assente il mondo virtuoso dell’assolo che avrebbe
tirato su i pezzi modesti con uno sprazzo di elettricità. Una caratteristica
che si propone varie volte è il terminare le tracce con un finale dal ritmo
rallentato rispetto a tutta l’aria della song, cercando una soluzione
atmosferica mortifera, opprimente e apocalitticamente cupa, volendo
sottolineare il senso di morte che evidenziano i titoli dei brani ma anche
dell’album stesso. E il risultato è ottimo. Bravi a gestire il palco dal vivo,
non dei maghi dell’atto compositivo;
comunque quando hanno il momento ispirato trovano dei passaggi forti che
colpiscono nel segno. Sky Robertace latini
***
“REVENANT” Zombie Scars ( Italy-Toscana) 2012
Un
thrash-metal che non delude le mie aspettative. La band si conferma valida come
mi era parsa dal vivo. Siccome il
livello si mantiene sufficientemente alto in tutti gli episodi (certo la
recensione che ho letto di “Heavy metal Heaven” ha esagerato a dare 92/100; e
dice pure: “Probabilmente il quartetto potrà fare anche di meglio in fututo”),
e tutte le tracce però sono all’interno di uno stesso compatto schema
compositivo, senza mai essere delle mere copie una dell’altra, ma senza nemmeno
spiccare troppo una rispetto all’altra, è difficile decidere quali brani siano
minori. Decido di affidarmi all’istinto e meno alla ragione; ecco il risultato.
Brani migliori: “BACKYARD GRAVEYARD”, dopo una chitarra acustica soft, parte
una bordata ritmica assolutamente corposa e avvolgente. Globalmente il groove
si mantiene sempre dinamico e incisivo. Anche il basso fa la sua parte
elaborando una lenta oppressione prima di un sentito assolo. Forse la
composizione migliore. “BLEEDING BLACK” scivola via in modo diretto con riff
semplice ma portando nella ritmica una cadenza quadrata e solida, con passaggi
ben costruiti. Brano meno thrash e più votato al metal classico anni ‘80,
sebbene il ritornello sia quello tipico di certo metal americano fine anni ‘90.
“1987” risulta una ballata corale con il piglio giusto senza risvolti mielosi
nonostante nel testo si accenni al pianto. Una piccola espressione di
leggerezza che anche l’assolo sa supportare emozionalmente. Mi piace il modo
scelto per terminare la traccia. “HIGH TIDE”
inizia con middle-time per poi articolarsi diversamente nei vari
passsaggi tra oscurità e durezza. Un pizzico di Stoner e di Doom, ma la zona
aggressiva è così maggiormente sottolineata. La chitarra fa i suoi effetti alla
Zakk Wylde, e la voce s’incattivisce più che negli altri pezzi. “ON THE DAY OF
THE DEADS” esprime una snellezza strutturale che risulta di immediata
assimilazione. Riff portante corposo e sostenuto. “DEAD EYES” è un brano che
oscilla tra enfasi evocativa ed essenzialità ritmica. Davvero qui la ritmica la
fa da padrona, nonostante un bell’assolo chitarristico degno di essere goduto
appieno, tanto che dispiace non si prolunghi ulteriormente. Brani minori: “Blessed
are the devil” parte subito a martellante velocità come fosse un pezzo dei
Motorhead, ma cambia di ritmo nel procedere. La linea vocale è molto lineare su
un’unica nota, amelodica, con una verve punk-core. E l’impatto è immediato. La
melodia la si trova ben congegnata, e particolarmente morbida ma non
zuccherosamente commerciale, nel ritornello corale. Il tutto è arricchito da un
bell’assolo di chitarra. “Shivers” si affaccia in modo scuro e sinuoso. Ritmo
variegato su una base cadenzata che può essere usata bene in sede live. Assolo
breve ma ficcante. C’è un che di tormentato nell’atmosfera di questo pezzo. “Revenant”
porta bene l’album in quanto title-track, infatti è un ottimo momento. Bella la
doppia voce su due tonalità. Qui l’assolo non è irresistibile, ma il groove è
intrigante. “The riddle” si dipana su di
un groove bombastico, e nella batteria non c’è un appiglio sempre uguale al
quale l’ascoltatore possa riferirsi, rendendo così più interessante il
procedere. Però la cosa non evolve, quando sarebbe stato bello approfondirne il
potenziale. “Spirits” sembra avere un tono leggermente leggiadro soprattutto
nel ritornello (I can see…/I can feel), ma in realtà non si tratta di una happy
song; ha invece un portamento più serioso di quel che appare. La ritmica è
robusta e viene appiattita la possibilità melodica del cantato così da non
diventare troppo orecchiabile (lo dico in senso positivo). Assolo troppo breve
pur partito con vitalità. Bello il groove del finale. Non è musica brutale, c’è
un mucchio di energia e di toni pesantemente metal, ma si evince raffinatezza e
personalizzazione di un modo genuino di sentire la musica da parte di questi
musicisti. Tendono a ritornelli orecchiabili, ma mai fastidiosi, anzi ben
portati lasciando nella costruzione di ogni brano la durezza e la potenza che
eliminano rischi di superficialità compositiva. David Riganelli non sarà un
virtuoso del canto, ma non è mai fuori posto. Quasi non si percepiscono
indecisioni nella sua interpretazione (piccoli cali tecnici in pochi punti),
nemmeno del brano ballata, campo dove spesso si rischia l’autogol. Gli assoli
sono taglienti il giusto e in essi c’è quel gusto del metal d’altri tempi che
affiora con bravura tecnica. Il sound è moderno comunque, e deve molto
all’America. Ma se lo stile Linkin’Park o Nickelback voleva entrare nel loro
songwriting, non c’è riuscito; bene! La sezione ritmica è trascinante e
assolutamente centrale nel sostegno sonoro. In conclusione si denota da studio
la stessa grinta che viene espressa dal vivo.
Questa
copia dell’album in mio possesso è una di quelle lanciate dal palco dalla band
che è finita al volo nelle mani, guarda caso, di mio fratello che stava dietro
(io invece me ne stavo in prima fila che non posso fare altrimenti). Sky
Robertace Latini
***
“THE DEVIL’S CLAW” Steel Crow (Italy-Perugia) -
2012
Chiamiamolo
un mini-album di sole 5 canzoni (le tracce sono sette ma due sono intro ed
outro). Il risultato non è entusiasmante ma alcuni spunti sono interesanti e
andrebbero sviluppati senza entrare in momenti derivativi che li
spersonalizzano. Il Power-HeavyMetal che ricalca lo stile degli anni ’80 è uno
dei miei preferiti, ma il solo fatto di suonarlo non salva nessuno alle mie
orecchie di fruitore accanito. “ANGEL IN CHAINS” non è perfetta nell’esecuzione
però come brano non è male. Ricorda i loro compaesani Interceptor degli anni
’80 (storia del metal umbro) sia per song-writing che per anima metallica, voce
compresa. Ritmo medio e velocità supersonica si legano per dinamizzare con
freschezza un brano che, pur non discostandosi di Maiden, appare un buon
episodio non troppo copiato, anche se non così personale. “STEEL CROW” è il
pezzo migliore del disco. Lineare, cadenzato e dagli assoli fluidi. La voce non
esagera e senza voler creare troppa complessità ed enfasi, colpiscono nel segno
grazie al fatto di essere più diretti. Brani minori: “Gates of Inferno”,
l’intro, va nominato solo per la recitazione del canto dantesco (il famoso
“Lasciate ogni speranza o voi che entrate”) di ingresso all’Inferno. “Twilight
of season” è dinamica ed energica, ma risulta troppo derivativa degli Iron
Maiden, e poi è solo una breve scheggia che sarebbe dovuta durare più a lungo.
E’ il brano dove il cantante Gabriele Santoni si esprime al meglio. “The
devil’s claw” è un altro esempio di come si “argirano” gli Iron. Acuti fenomenali
non sempre gestiti al meglio. Anche qui si spezza troppo presto la song. “Fight
for your life”, nel suo giretto iniziale di riff, fa venire in mente i Saxon
del brano “Wheels of steel” e siccome fa parte della struttura portante di una
parte della composizione non si può soprassedere. E anche il riff successivo
non è una novità. Qui i cambi vocali sono al limite della storpiatura della
linea melodica. Produzione non perfetta che però non stonerebbe, se non fosse
per il fatto che non sempre la voce è all’altezza, pur avendo potenza. Gli
acuti del singer Gabriele Santoni spesso sono ben alti ma andrebbero dosati con
maggior meticolosità. Tutto riconduce agli Iron Maiden con sprazzi Judas Priest
e Saxon. Non appare un gruppo che possa donare qualcosa di nuovo al mondo
metal. Dal vivo ci si diverte perché
sanno suonare e perché uno se ne frega della poca personalità, ma da studio le
cose vengono godute diversamente. Consideriamo però che nel frattempo la
formazione è mutata, si aprono nuove prospettive dal punto di vista
compositivo. Attendo al varco. Curiosità: il moniker. Parla il bassista Mauro
Alocchi: “In verità inizialmente nel 2006 ci chiamavamo proprio Steel Crown,
ignari che esistessero effettivamente degli omonini italiani che facevano
proprio lo stesso genere, fattostà che nel 2007 abbiamo cambiato nome in Steel
Crow, togliendo volgarmente la "N" proprio perchè gli originali Steel
Crown stavano per promuovere una reunion e gentilmente ci hanno avvisato con
una mail dell'inconveniente, non c'è una vera ragione dietro la scelta, suona
bene suona facile e diretto e non ci siamo fatti troppe domande. Il corvo è una
figura abbastanza mistica, che accompagna la morte”. Per chi non lo sapesse gli
Steel Crown sono una band storica già esistente negli anni ’80. Sky Robertace Latini
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