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LA FOTO DELLA SETTIMANA a cura di NICOLA D'ALESSIO
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349. RECENSIONI di Sky Robertace Latini
“ARS MUSIC” Dark Moor (Spagna) – 2013
La band dopo 14
anni di carriera molto enfatica ha prodotto stavolta un lavoro facilmente
fruibile senza comunque perdere carisma e raffinatezza, sebbene diminuiscano
potenza e magniloquenza. “FIRST LANCE OF SPAIN” scivola via con piacere;
limpida e lineare, con un lieve sinfonismo, prediligendo però l’orecchiabilità.
La parte centrale diventa più enfatica e l’assolo si stampa nettamente nel
cervello con nitidezza, senza cercare alcun virtuosismo, ma lasciando che si
sviluppi con melodica verve. “THE ROAD AGAIN” è una PowerMetal song che però è
anche legata all’AoR per la sua melodicissima espressività. E’ piuttosto
commerciale mantenedosi però nella scia energica del metal. E’ stata scelta per
un video in cui si inserisce la figura di una persona che diventa paraplegica,
ma che non vuole arrendersi (alla fine sempre i soliti messaggi del “dai che ce
la fai” ma il video è carino). “THE CITY OF PEACE” corre su un 4/4 veloce su
cui si staglia una linea vocale semplice facilmente assimilabile. Assolo
chitarristico molto da musica classica, ma s’inserisce anche quello di basso
molto d’effetto. “LIVING IN A NIGHTMARE” è il brano che ricorda meglio la
vecchia discografia supersinfonica. Sembrano per altro rifarsi agli italiani
Rhapsody. Il pezzo è potente, varia i ritmi e l’interpretazione vocale, di
grande maestria, risulta multisfaccetata. Velocità e durezza metalliche
perfettamente assemblate insieme al
feeling da musica classica. “SAINT JAMES’ WAY” è un pezzo AoR che contiene la
morbidezza del pianoforte (con un’anima anche Pop Metal alla Europe), associata
all’epicità sinfonica. “This is my way”
va nominata perché esce dagli abituali canoni della band anche se sembra
naturale per loro arrivare a comporre tipi di brano così leggeri e
orecchiabili. Un pezzo che può inserirsi nel genere dell’AoR. Brano minore
perché perde di forza a causa di un cantato che diventa musica leggera, anche
se si rifà molto ai tipi di song a cui i Queen ci hanno abituato nella loro
fulgida carriera (assolo di chitarra compreso). Eppure se di musica leggera si
tratta, é riuscita appieno e con una certa classe pure. Nella loro corposa
discografia di otto album, i Dark Moor forse avevano raggiunto il quarto posto
di valore fra le band sinfoniche mondiali di metal. Primi i tre gruppi di alto
livello che sono Nightwish/Rhapsody Of Fire/Epica, ma subito dopo ci sono
questi spagnoli, che però hanno cercato, in tal nono episodio, la strada
contraria, cioè meno complessa (se pensiamo all’ultimo degli Epica “”Requiem
for the indifferent”, ci rendiamo conto della grande differenza). Come i D.Moor
ci hanno già provato gli italiani Elvenking con “Red silent tides” (2010) e gli
olandesi Whitin Temptation con “The Unforgivin’”(2011). Diciamo che non è facile
buttarsi nella commercialità rimanendo alti di livello artistico. I D.Moor ci
riescono a metà, peggio degli Elvenking (che furono perfetti nella loro nuova
veste, ma già abbandonata con il disco successivo), e meglio dei W.Temptation
che a differenza dei Dark M. persero, commercializzandosi, la scintilla. Spero
comunque che i Dark Moor tornino alla loro vecchia veste che li vedeva ergersi
a grandi icone sinfoniche, lasciando perdere questa ricerca di semplicità che
li premia solo parzialmente.
***
“PERILS OF THE DEEP BLUE” Sirenia (Norvegia) - 2013
Sicuramente questo
nuovo lavoro della band supera il valore di quello del 2011 (“Enigma of life”).
Il guaio di questa opera è che si spezza perfettamente in due parti: una
splendida e piena di personalità, l’altra mediocre o comunque appiattita su
schemi comuni e che danno l’idea del già sentito. “DUCERE ME IN LUCEM” è
l’intro che apre l’album, cioè la prima traccia. Di solito gli intro mi
sembrano pezzi inutili quando rimangono a sè stanti. Stavolta vale di per se
stesso in un’atmosfera che poteva anche durare di più e diventare brano vero e
proprio (del resto già dura 3 minuti e mezzo). Una pianistica ballata rarefatta
con voce soavissima; un successivo momento lirico-corale; il tutto attraverso una
realizzazione molto celtica. “SEVEN WIDOWS WEEP” è il brano collegato all’intro
ed è in linea con esso essendo il pezzo sinfonicamente più maestoso. Una
minisuite di circa 6 minuti e mezzo dove il riff asciutto e metallico si
associa ad una interpretazione vocale femminile piuttosto energica ed una voce
maschile roca simil-growl che ne potenzia la durezza. Il ponte centrale
pianoforte-voce femminile inserisce un momento soft che incrementa l’ariosità
di una atmosfera già di ampio respiro, ma il pianoforte diventa anche un
strumento che si mette in primo piano nell’incrementare la velocità. Il miglior
pezzo del disco. “MY DESTINY COMING TO PASS” è un brano più fluido e dal ritmo
quasi ballabile che però non tralascia i toni forti del riffing chitarristico.
Voce femminile di carattere, dove la dolcezza si esprime in contrapposizione
alla dinamicità insita nella struttura. Ritornello di grande impatto e pathos. “DITT
ENDELIKT” è una canzone commerciale però molto accattivante e ben riuscita.
Ricorda band scandinave più conosciute tipo Rasmus. La voce femminile appare
solo nel parlato in portoghese. Invece il cantato è maschile e limpido. Non si
tratta di Symphonic, bensì di Pop-Metal perfettamente riuscito. “COLD CARESS”
rialza i tono epici e sinfonici, con la forza che i cori e la chitarra distorta
possono dare. Anche le tastiere prediligono atteggiameni scuri, e in più
momenti aumentano la dinamicità della struttura. La voce femminile poi qui
prende una modalità più acuta e tagliente, ed è più interessante nella parte
della strofa che nel ritornello. Il ponte soft non è innovativo ma è ben
inserito nel contesto e precede la parte più pesante della song, in un
middle-time in cui la voce maschile partecipa all’indurimento sonoro. “PROFOUND
SCARS” è un altro pezzo duro. Tappeti tastieristici ad ammorbidire ma il groove
fa rimanere il tutto ben solido. In più brani appare anche la voce maschile di
Morten Veland, gutturale ma mai davvero growl. Mi piace anche se in due episodi
mi sembra una inutile apparizione. La voce di Alyn riesce a farsi più matura
che nel disco del 2010, e nelle tracce migliori cerca di creare linee vocali
che escano dalla banalità. I brani minori non sono male, ma rispetto ai
migliori il calo è considerevole, se tutto l’album fosse stato all’altezza dei
pezzi migliori, ne sarebbe risultato un capolavoro (perché non sempre i brani
migliori di tanti dischi sono così migliori come quelli di questo).
***
“THE BONDING” Edenbridge (Austria) -
2013
Rispetto all’album
“Solitaire” del 2010, qui tutta l’atmosfera si fa ancora più rarefatta. Quando
il sinfonismo sembra stia per aver concluso il suo percorso, ecco che per
l’ennesima volta bisogna ricredersi. Rimanendo nella semplicità questa band è
riuscita ad aggiungere qualcosa di sensato e significativo. Ben due uscite
austriache per il metal quest’anno, l’altra era di Power Metal, dei Serenity;
ma gli Edenbridge appiono maggiormente ispirati. “MYSTIC RIVER” inizia l’album
con una verve più rock nonostante gli inserti sinfonici. La voce melodiosa e
allungata spezza il riffing frizzante, donando un contrasto efficace. Separate
le parti iniziale e finale, sulla seconda aumenta il sinfonismo, e dopo un momento
rarefatto c’è un bel contesto solistico. Uno dei pezzi più dinamici dell’album
(traccia di circa 7 minuti). “THE INVISIBLE FORCE” è uno dei momenti più metal
ma anche molto classicheggianti. La voce si fa meno angelica, ma rimane
affascinante. “INTO A SEA OF SOULS” è una ballata che si allaccia a certo
goticismo metal. Algidamente rimane nell’alveo sonoro del sogno, illuminandosi
di prog nell’assolo finale. “FAR OUT OF REACH” esprime un cantato diverso da
quello usato durante tutto l’album. E’ infatti meno diluito il modo di cantare,
e si lega a certo pop-rock di Keith Bush o Tori Amos. Ma poi ci pensa
l’aggiunta di sinfonismo a tornare nel solco tipico della band. Anche qui però
troviamo l’incedere prog nella parte solista. Una ballata semiacustica ben
curata e appassionata. Forse è la traccia migliore del lavoro insieme alla
Titletrack. “THE BONDING” è una suite di quasi 15 minuti e mezzo e chiude con
maestosità l’album. Il sinfonismo è totale (enfatizzato anche da molti passaggi
corali), ma usa il suo lato più oscuro, in una ambientazione glaciale iniziale
dove chitarra acustica e voce danno invece un po’ di dolcezza. Momenti da
ballata e distorsioni metal si alternano in una variegata multisfaccettatura;
ad ampliare il paesaggio sonoro il perfetto inserto di voce maschile. Tra le
variazioni sul tema un suono da koto
giapponese (strumento a corda) che segue una linea melodica da estremo oriente
e che imbastisce una trama magica molto aerea, dall’anima progressive.
Composizione splendida. C’è anche una versione solo strumentale del disco, ed
io l’ho ascoltata prima di quella cantata. Devo dire che funziona, anzi, la
linea vocale tende a soffocare certi passaggi sonori. La voce ha quasi sempre
una caratteristica di linearità che non segue pedissequamente la ritmicità del
brano, così che e il suo cantato dona rarefattezza e soavità. La voce di Sabine
Edelsbacher non contiene la liricità di una Tarja o di Simone degli Epica, ma
nella sua chiarezza timbrica appare angelica. L’orecchiabilità e una certa leggerezza
fanno sconfinare la band verso l’AoR in modo tale che sembra di poter parlare
di Symphonic AoR. Altre volte la band si allontana dal mondo metal, per esempio
nel brano minore ma buono, ”Death is not the end”, dove troviamo più il pop di
certo cantautorato femminile americano che il rock. La qualità però rimane
alta, grazie a tutta una serie di soluzioni stilistiche e per le linee cantate
di ampio respiro, in cui si affaccia di quando in quando il progressive rock; e
vogliamo metterci anche gli Abba più fluidi? (Il cantato finale di “The
Bonding” li accenna). Forse è proprio il non essere rimasti prigionieri di un
unico ambito a dare valore aggiuntivo a questo lavoro. Complimenti.
Sky Robertace Latini
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