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LA FOTO DELLA SETTIMANA a cura di NICOLA D'ALESSIO
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93. RECENSIONI 2011 - PROGRESSIVE ROCK - TRASH METAL di Roberto Latini
BLUNT FORCE TRAUMA - Cavalera Conspiracy (2011)
Musica per appetiti forti, per menti che non amano i compromessi, per orecchie abituate all’impatto solido. Un trash pulito e tecnico con molto cuore; violento, ma al tempo stesso, raffinato. I fratelli Cavalera (famosi perché ex della band brasiliana Sepultura) sono davvero artisti di livello e questo lavoro non è minore rispetto alle opere del gruppo di origine dei due. “PSYCHOSOMATIC” è un brano pesante e roccioso. Sin dal suo inizio lento e dal groove denso, gronda violenza e oppressione, sensazione che continua anche quando si accende e sale di velocità. E’ urlato, è duro, ma i riff sono variabili e l’assolo amplia lo spirito rendendo il tutto meno claustrofobico. La resa è globalmente d’effetto. “JIHAD JOE” schizza lava sull’ascoltatore. Il mid-time con la ripetizione del titolo rende la canzone corale. La voce cupa risulta poco modulata, ma è la parte degli inserti chitarristici ad aprire spiragli sonori sopra l’andamento ossessivo. Il titolo fa riferimento alle guerre nei paesi arabi, con una ironia rivolta al fatto che erano guerre di Bush (Joe per George). “KILLING INSIDE” produce un basso in apertura e un riff secco, che fanno partire una composizione dura e però dal ritmo accattivante, adatto all’Headbanging. La ritmica ricorda i Megadeth. Meno dura la parte che separa il primo momento cantato col secondo, come fosse una brezza calda tra i fumi di battaglia. Poi segue un assolo che scorre come una lama tagliente. Riffing da cavalcata per “I SPEAK HATE” che scorre orecchiabile e ballabile. Orecchiabile per me solo, e ballabile per un kid scatenato. Ritornello cattivo e serrato, posto su una ritmica diversa rispetto alla struttura principale. Sensazioni corrotte, nel finale, da un suono meno estroverso. Trash furibondo senza speranza alcuna in“TARGET”, dallo stile comunque più classico. Si tratta di un brano semplice di più immediata presa. Veloce, feroce, rotolante, fino alla parte centrale di mid-time, che però non smette di infierire senza sprazzi di luce. L’assolo sembra addolcire una voce piena di rabbia sofferente. Pure “GENGHIS KAN” genera la stessa durezza degli altri brani, qui però la cadenza è maggiormente ipnotica. Utilizza un riff adatto ad un ritmo mid-time. Viene lasciato più spazio agli assoli rispetto agli altri pezzi dell’album. Divertente e nulla più la cover dei Black Sabbath “Electric Funeral”, servirà giusto per i concerti. Possiamo parlare di un muro di suono compatto, colorato di inserti intelligenti e perfettamente intellegibili. Disco di valore. L’anima dell’opera è così vibrante perché personale, lo racconta Max Cavalera: “La musica è potente, rabbiosa, aggressiva e pesante perché vuole fare uscire la parte più bestiale della natura umana e del dolore. Non si scherza mai quando si ha a che fare col potere evocativo della musica”(Rock Hard). E poi: “Trovo nel metal una energia e una potenza che non trovo da nessuna altra parte. Quando si tratta di comporre, il metal ha una forza dirompente unica. Ti obbliga a reagire, ti dice le cose in modo duro e diretto, senza fronzoli e senza compromessi” (Rock Hard) E ancora: “Io voglio essere convinto che esista un qualcosa di buono dentro ogni essere umano, ma talvolta quel qualcosa va sollecitato con un impatto brutale e violento, che non permette l’apatia”(Rock Hard). Ecco spiegato il contenuto emotivo e culturale del disco. ROBERTO LATINI
“FLY FROM HERE” YES – 2011
“Il mio Tesssorro”, come diceva Gollum nel “Signore degli anelli”, è di nuovo nelle mie orecchie e dopo pochi minuti di ascolto mi sono già commosso. Gli YES, dopo dieci anni dall’ultimo lavoro (“Magnification” del 2001), pubblicano un nuovo album. L’ho comprato subito. Li ho sempre amati, sin dal 1978 quando ne ho scoperto l’esistenza con “Tormato”. Gli YES da soli li metto alla pari con tutto il metal. In questo ultimo caso si tratta di un Progressive venato di Pop - Rock. La Band pare abbia voluto concentrarsi fortemente sulla verve compositiva e non su quella virtuosistica a cui questi musicisti ci hanno abituato durante la loro lunga carriera (il primo disco è del 1969). La loro tecnica si sente, ma gli assoli di chitarra del grande Howe sono perfettamente incastonati all’interno della struttura compositiva senza fuoriuscire in rivoli eclettici, anche nel suo brano solista strumentale di sola chitarra acustica, ha scelto la costruzione e non si esprime con effetti speciali stupefacenti da virtuoso dello strumento qual è. Alle tastiere c’è poi Downes del tempo di Drama (e collaboratore di Howe negli Asia) che non è certo Wakeman, del quale infatti si sente la mancanza. Una parola particolare va spesa per il cantante. Il suo nome è David Benoit. Questo canadese è servito per la tournee del 2009 (io ero alla data italiana di Roma) quando il magnifico Anderson dovette rinunciarvi a causa dei suoi ormai cronici problemi di gola. E’ un perfetto sostituto ma certo non è la stessa cosa. Fu scovato tramite Internet….il bassista Squire cercò tra le cover band degli Yes, e quando vide la band “Close to the Edge” capì che David andava benissimo. Ma in questo disco egli risulta piuttosto compatto e non crea molte variabili, rimanendo essenziale e asciutto. Le caratteristiche timbriche appaiono a volte molto simili ad Anderson, altre volte abbastanza differenti, ma andrebbe comunque bene. Sembra invece che la linea vocale, dal punto di vista compositivo, si trattenga dall’aprirsi. Insomma non prende mai davvero il volo, come gli strumenti, anche lei è subordinata alla struttura della canzone. Io la vedo così: gli altri hanno deciso quale doveva essere il cantato e Benoit si limita ad eseguire, del resto è l’ultimo arrivato ed è il suo primo (e finora unico) album con gli Yes. Fortissima si sente la presenza del bassista Squire (il vero leader della band) il cui strumento è l’elemento portante della struttura compositiva. Virile e ben presente, vivacizza la ritmica, e anche senza fare parte a sé, infonde forza al dipanarsi dei brani. Piuttosto banale il batterista Alan White che rinuncia alle sue prerogative di artista delle “pelli” (chi ha sempre preferito Bruford, qui riderà sotto i baffi, ma io ho sempre preferito White, fino ad oggi).
La title-track “FLY FROM HERE” è una suite formata da sei parti, ma in realtà esse non sono ben legate fra loro quindi non si dà la sensazione di un brano continuativo, risultando le canzoni come momenti a sé stanti, fra loro diverse per sonorità e carattere. Le prime due parti, l’”Ouverture” e “We can fly”, potrebbero essere considerate un unico momento, e la loro caratteristica, pur essendo un brano composto nel 1980 (periodo di “Drama”), ci riporta all’atmosfera di “Brothers of mine” (1989) dell’album “Wakeman-Howe-Wakeman-Bruford” che non ha il logo Yes perché assente il bassista Squire. Qui invece Squire c’è. E’ il momento più bello di tutto il disco (non solo rispetto al resto della suite), dove la limpidezza e l’anima ariosa conduce alla freschezza. La terza parte “Sad night at the airfield” è un bel pezzo soft iniziato dalla chitarra acustica dove si percepisce bene che il cantante non è Anderson (la tonalità è più bassa e il timbro chiaramente diverso). Più che un momento alla Yes, si avvicina a reminiscenze pinkfloydiane anche per la la modalità solistica della chitarra; l’ambientazione risulta soavemente descritta. La quarta parte, “Madman at the screens” invece è meno incisiva e un po’ ripetitiva, si sente troppo l’assenza di un qualche tipo di assolo; essa si getta pienamente nel periodo di “Drama” senza aggiungere molto a quel vecchio percorso pur possedendo una buona energia. La quinta parte, “Bumpy ride”, fa calare la tensione. L’unica cosa interessante è che si esprime con suoni dell’album “Tormato” del 1978, ma senza acquistare nulla del valore di quell’opera. L’ultima parte è la ripresa di “Fly from here” che serve per riunire tutta la sestina dandole dignità di lunga suite, ma non riesce nell’intento. Insomma “We can fly” almeno musicalmente (non so per il testo) poteva starsene da solo come pezzo a se stante con l’Overture come inizio e Reprise come finale senza dividere in tre parti. Nel complesso ottima composizione ma senza vera unità. “THE MAN YOU ALWAYS WANTED ME TO BE” è meno bella di “We can fly” e “Sad night at the airfield”ma è migliore rispetto al resto di “Fly from here”. Una canzone tranquilla ma raffinata alla Yes, dove si percepisce parzialmente il folk - countryggiante dell’antico mondo Yes (quasi della prima metà anni ’70). L’inizio di “HOUR OF NEED” pare volerci dare il passato come dono, ma è un attimo, il brano è tutt’altro, un semplice acustico, una ballata accompagnata dalla tastiera dal suono dei vecchi fasti. Pur bello, il pezzo non vuole eccellere, resta ancorato al livello di tutto l’album. “INTO THE STORM” è forse il brano più vivace. Sta perfettamente nella scia di tre dischi: “Drama”/”90125”/“Union” avendo dentro una certa commercialità, e al tempo stesso, un ampio respiro compositivo. Qui, più che altrove, la chitarra solista fa il suo virtuosistico dovere; meno male. Non posso nascondere un pelino di delusione, dato che dopo dieci anni mi aspettavo qualcosa di più consistente. Le critiche che farò sembreranno eccessive, ma anche se il disco non è tra le migliori cose proposte dagli Yes, è un grande esempio di come si deve fare la musica, come sempre sopra la media per questo grande gruppo. Ho letto una recensione in cui si dice che si tratta del loro migliore lavoro da trent’anni a questa parte; bè, è facile dissentire, ma ora basta….aver criticato questo nuovo suono magico è troppo per me. Voi ascoltate senza i miei pregiudizi….ne vale la pena. ROBERTO LATINI
Progressive Rock
Il progressive rock degli anni ’70 non è un fulmine a ciel sereno, fu ben preparato da gruppi molto validi già negli anni ’60. Gli stessi album d’esordio dei gruppi più importanti fanno parte di quel decennio. I pink Floyd lo pubblicano nel ’67; gli Yes, i Genesis e i King Crimson nel ‘69. La nascita ufficiale del Prog Rock a volte viene ricondotta al 1967, anno d’uscita dell’album dei Moody Blues “Days of future passed”, ma prende una dignità a sé stante nel decennio successivo, divenendo una corrente autonoma del rock. Tre sono i gruppi che dominano la zona progressive: Pink Floyd; Genesis e Yes. Entrambi fanno parte della scena di tale genere musicale, sono però estremamente diversi nella tipologia…diventano per il progressive rock ciò che Deep Purple; Led zeppelin e Black Sabbath sono per l’Hard Rock: basilari e fonte di tre correnti diverse di uno stesso genere. La proprietà del progressive è di mescolare tutti i le tipologie musicali in modo da sfruttarne i suoni da ogni lato, ampliandone le potenzialità. Di base rimane rock, con radici Blues e Folk/Country, ma abbandonando la semplicità del rock’n’roll (pur mantenendone l’energia) e buttando dentro anche tradizioni musicali non legate al rock, come musica classica, jazz, e anche funky o antica. Gli strumenti principali sono i soliti usati nel rock, ma spesso le tastiere sovrastano le chitarre mentre questo negli altri tipi di rock succede meno. Il risultato è una maggiore complessità e varietà compositiva, oltre che melodica e armonica. Lo stile rischia però di non essere caratteristico, i gruppi meno dotati sembrano una volta una cosa, una volta un’altra, soprattutto ai tempi attuali. Mentre negli anni ’70, almeno i tre principali erano immediatamente riconoscibili, riuscendo ad avere una personalità forte. La musica rock quindi evolve, divenendo meno ballabile e emancipandosi dal solo svago, trasformandosi in musica d’ascolto. Il tentativo è di aumentare il livello artistico e farsi musica classica rock. Molti dischi dimostrano che l’obbiettivo è stato raggiunto. Fra tutti, i Genesis e i Pink Floyd sembrano raggiungere maggior successo anche tra i non appassionati, forse risultando di più facile fruizione. I Genesis prediligono una ambientazione sognante e morbida, usando molto le tastiere, negli anni ’80 si corrompono finendo in un pop-rock piuttosto commerciale, non sempre banale, ma comunque leggerino e spesso poco incisivo. I Pink Floyd invece, più oppressivi, usano maggiormente la chitarra e si sentono forti le basi blues. Diverso è il discorso per gli Yes che sono più ostici e di maggior complessità tanto compositiva quanto tecnica, con influenze le più svariate dal folk al blues, ma anche di jazz, di psichedelia e di rock elettrico; le ambientazioni sono per lo più solari e positive, cantando la natura e temi ecologisti vicini alla cultura New Age (ma lontana dalla musica ambient della New Age). Dei tre è l’unica band ancora in attività, seppure con cambi di line-up e con moduli compositivi differenti (a volte legati al pop). “Fly from here” di quest’anno non offre i virtuosismi del passato, ma continua quelle atmosfere ariose e di ampio respiro con visioni celestiali e ottimistiche, mantenendo soltanto parzialmente la complessità che li ha resi famosi. Oggi il prog-rock vive attraverso nuovi eroi, che però difficilmente superano i livelli underground, rimanendo nascosti al grande pubblico.
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Trash Metal
Heavy Metal e Hardcore-punk, fondendosi hanno dato via al Trash (dal verbo inglese “percuotere”) nel 1983 con l’album dei Metallica “Kill’em all” e quello degli Slayer “Show no mercy”. Mentre la prima band si rifà molto alla N.W.O.B.H.M. di inizio anni ’80, la seconda contiene connotati Black (il Black era già in embrione nel 1981 coi Venom). Dal miscuglio black/trash sorgerà anche il Death Metal. Le influenze per la nascita del thrash possono essere individuate nei Judas Priest (“Exciter”) e nei Saxon (“Motorcycle man”) con il loro speed metal e i Motorhead con il loro suono violento (“Overkill”). Ma in questi gruppi, forti si sentono le basi blues del rock, mentre nei Metallica e compagni tali reminescenze sembrano scomparire. In realtà, a ben guardare, nel thrash le radici blues sono più nascoste ma ancora esistenti, quindi l’anima rock rimane prevalente, mentre poi nei successivi tipi di metal, come per esempio il sinfonico, il rock vira verso soluzioni stilistiche legate alla musica classica. Ma nel thrash non c’è solo la velocità a fare la differenza, cambia anche l’approccio tecnico; in tal senso è caratteristico il suono della chitarra ritmica che usa l’effetto “chug” atto a metallizzare ancora di più il suono e a renderlo epilettico. Sarà poi usato in quasi tutto il metal degli anni ’90 e 2000, persino nel Symphonic e nel Progressive Metal. E’ l’America a creare questo nuovo genere metal. Dal punto di vista culturale i giovani si sono trovati più arrabbiati, il divertimento fine anni ’70 e inizio ’80 che ha visto la moda della disco music e del metal da “Sesso, droga e R’n’R”, si è trasformato in ribellione individualista, che non ha mai amato il “politicamente corretto”. Finita l’era hippy delle manifestazioni di massa, finito il punk dell’autodistruzione pura, finito anche il metal della ribellione semplicistica….ora è tempo di un metal più consapevole e provocatore, affermatore dell’individuo; infatti il thrash è spesso politicizzato (vedi Megadeth). Mentre il Black è più satanista e oscuro e il Death è più guerrafondaio e sanguinolento, il Thrash possiede una linea meno distruttiva (anzi, spesso costruttiva dal punto di vista filosofico - morale). Se ascoltiamo Black e Death, sia per i suoni che per i messaggi dei testi, il Thrash ci apparirà meno duro di quanto sia realmente. Attualmente vi sono gruppi come i Flotsam & Jetsam che hanno portato il thrash su lidi progressive, ma band ancora fedeli al passato pur con agile modernità, è il caso per esempio dei fratelli Cavalera, provenienti dai brasiliani Sepultura, che insieme hanno fondato i “Cavalera Conspiracy”, sfornando quest’anno un ottimo disco. ROBERTO LATINI
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