


Esordio di fuoco per questi rudi Bolognesi. Prog-Metal con Thrash incorporato, in un multiforme attacco di musica che appare fortemente Alternative, sebbene usando passaggi sonori molto classici. L’ascolto è sfibrante, sia perché il songwriting è schizofrenico nelle sue modificazioni, sia perché non viene mai zittito il lato esplosivo. Il loro moniker deriva da una song dei Rammstein, per cui è in lingua tedesca e significa Luce Brillante (ma luce piuttosto soffusa, tipo da lampada o candela). “ASCENSION” è l’inizio dell’album e subito informa l’ascoltatore che la band non seguirà linee rassicuranti ma si esibirà in escandescenze eclettiche. Infatti l’opposizione di agitazione e sofficità si alternano continuamente su tutta la linea strutturale; sono tre caratteristiche divise in ritmicità, acusticità e pseudo-doom. Il pezzo appena commentato è già ad un buon livello, ma è “KARMA” a sottolineare meglio la bontà qualitativa della proposta; è una song ancora più pazza, contrapponendo la forma rutilante a quella più introspettiva e mortifera, si scatena con accenti molto accesi ma sa curare anche il lato introspettivo. La maggior epicità si riscontra nella cupezza della title-track “Sonic Clash Warning” i cui riff non sono totalmente Thrash, pur esprimendo una globalità di tipo metal-classico quasi NWOBHM, sebbene poco ortodosso. L’altrettanto epica “VICKY’S LEGACY” è cantata come se la voce roca di Brian Johnson entrasse in una band più dura degli AC/DC cercando di avvicinarsi ai Cirith Ungol; una sfuriata che non gioca sulla velocità, ma sulla ritmica dinamicità, posta fra Thrash e NWOBHM, e su più atmosferici passaggi centrali. “Grand Father Song” ruba un po’ di atmosfera agli Iron Maiden, ma senza che l’orecchio possa accorgersene subito. Il brano meno riuscito appare “Watching through My Head a Baby”, soprattutto per la linea melodica poco convincente e l’indecisione vocale del cantante; altrimenti avrebbe degli ottimi spunti compositivi. Le urla belluine del cantato acuto fanno venire in mente quelle dei romani Astaroth (anni ‘80) o quelle dei Raven (e anche un po’ dei Savatage), dalla tipologia piuttosto schizoide. Più scura e rozza l’altra tonalità utilizzata, quasi mai davvero growl (solo per brevi istanti) ma la sua alternanza con il versante acuto è perfettamente equilibrata; la voce quando troppo pulita e soft funziona meno. Focosa la sezione ritmica e pesanti gli scoppi d’ira che solitamente non sono un crescendo ma una detonazione che fuoriesce da una pausa. Le irruenze chitarristiche sanno dare un impulso energetico ben collocato nel songwriting, songwriting che non sembra necessitare di assoli (e infatti essi latitano). La durezza e l’intransigenza di certi momenti non perde però mai la fruibilità delle song, e anche quando si passa velocemente da un atteggiamento ad un altro, l’accessibilità è immediata. Tecnicamente non è un album prodotto col massimo della qualità; ma la sensazione di metal alternativo si sposa bene con i suoni utilizzati. I difetti sembrano quasi doverosi in un disco come questo che riesce costantemente a rimanere interessante dal punto di vista dell’originalità; doverosi poiché danno un senso di onestà e del resto non danneggiano il tessuto generale. Pur apparendo come musica particolarmente esuberante non accelera mai in modo parossistico, e soprattutto non esce mai davvero da una concettualità ben codificata, la voglia di fuggire la comune “normalità” metal, non provoca esagerazione nella ricerca della stranezza e quindi non cade nella ridicolaggine, sebbene appaia leggermente ironica.
Davide Laugelli – bass / Paolo Massimiliani – drums


Una band
raffinata che esplicita la sua appartenenza sonora ai grandi spazi, in senso
americano tipicamente riconoscibile. La loro musica orecchiabile, ma anche
capace di indurimenti sonori, passa dall’Hard rock al semplice Rock, fino alla
leggerezza dell’AoR, con tecnicissima spontaneità, inserendo anche sfumature
country-folk non molto nascoste; alla fine tutto l’insieme è da sempre stato
categorizzato come Prog-Rock o Prog-HardRock; talvolta anche Pomp-Rock per la
maestosità di alcuni passaggi. Il loro esordio è datato 1974, e da allora siamo
arrivati al full-lenght numero 15. Questo nuovo lavoro è un evento, in quanto
sono passati ben sedici anni dall’ultimo “Somewhere to Elsewhere”. C’è una
nostalgica reminiscenza anni ’70, rispetto agli anni ’80 che portarono nel
gruppo una modernità un tantino troppo laccata e commerciale. E l’impostazione
di stampo antico funziona senza apparire stantìo, grazie alla classe e al mestiere. I pezzi migliori ricordano al
meglio i vecchi fasti degli anni ’70 appunto, come quello di apertura “WITH
THIS EARTH”, contemporaneamente docile e grintoso (quest’ultima caratteristica
soprattutto grazie al drumming). Bella carica la riffica di “RHYTHM IN THE
SPIRIT”, in modalità Hard, che si spegne col basso soffuso e la voce limpida,
senza però perdere fascino, fino ad un ritornello perfettamente incastonato dai
violini di magnifico effetto. Molto gustosa “THE VOYAGE OF EIGHT EIGHTEEN”
dall’essenza folk-rock, grazie soprattutto agli onnipresenti violini; pezzo
molto corposo dove i passaggi ritmici sono importanti più della linea melodica.
L’episodio più tosto è la ritmata “SUMMER”, leggera nelle strofe, coralmente
incisiva nel ritornello, aggressiva nella parte degli assoli, violino, chitarra
e tastiere, anticipati da un bel riffare corposo. L’Hard Rock più esplicito è situato
nella rocciosa “Crowed Isolation”; riff ossessivo e aperture ariose, non
originalissima, ma di forte appeal. Non tutto luccica, le ballata “Refugee”, ad
esempio, è un po’ una delusione, ma non perché brutta, anzi, tutto il
contrario, ma si presenta come tronca, non sviluppata, senza mantenere quello
che sembra promettere; per quanto soavemente densa, si limita a una ripetizione
del cantato e ad un finale strumentale rarefatto, particolarmente ad effetto,
ma che non ha la pienezza per terminare, dando l’impressione di essere l’intro
di qualcos’altro, un bell’intro certo, ma nulla di più. Poi ci sono due momenti
che sono un mezzo passo falso; si tratta di “Visibility Zero” che possiede una
linea vocale piuttosto banale e “The Unsung Heroes” che pare una canzone
natalizia poco tonica. Questi sarebbero i due momenti AoR che non offrono
granchè se non un ottimo arrangiamento e due belle parti soliste. Infatti le
varie parti strumentali sono sempre pregnanti e significative; la prima delle
song appena nominate, offre un assolo di violino elettrico e sferzante, il
secondo pezzo invece un soffice susseguirsi di passaggi eleganti. E così avviene
per gran parte delle tracce, dove la cura solista è ben strutturata, affidata
per la maggior parte al violino, anche se in alcuni momenti pure la chitarra sa
farsi prepotente come in “Rhythm in the Spirit”. Niente di particolarmente
esaltante fanno sentire le due strumentali, “Section 60” e “Oh Shenandoah”, per
quanto piacevoli e non semplici riempitivi. La cover di “Home on the Range”,
cowboy folk-song del 1870 scritta da Kelley/Higley, è eseguita senza una
rilettura che ne amplifichi il potenziale, riducendosi a mero omaggio,
musicalmente poco significativo. I Kansas hanno segnato in modo importante la
storia del progressive-folk-rock, rendendosi autori di pietre miliari della
musica internazionale, ponendo la melodia in contesti potenti, una stilistica
che altre band hanno intorbidato cercando troppa commercialità, come hanno
fatto i Toto che sono l’emblema del genere AoR,
e che in parte si rifanno ai Kansas. I Toto eliminarono il lato folk,
optando invece per una sfumatura Pop. L’AoR, i Kansas, difficilmente lo sposano
in pieno. Famosissima la magnifica ”Dust in the Wind”, ballata inarrivabile del
’78. Qui, in questo pur buon lavoro, manca l’attitudine a quella magia;
fortunatamente essi sono in grado di emozionare ancora, tanto da apparire in
forma e tanto da non snaturare la loro essenza di musicisti ispirati.
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