"THE ASTONISHING” album 2016 dei Dream Theater
 Ecco
nel 2016 i Dream Teather essere ben vivi e vegeti col loro tredicesimo album
dal 1989; dopo tanti anni di carriera ancora profondono massimo impegno. E stavolta
l’impegno si tramuta in un doppio album. Più di due ore di musica, lungo
quindi, creato così per necessità tematica, dato che si tratta di un concept
scritto come una storia vera e propria, tipo musical. La struttura prevede
brani completi ma anche tanti piccoli pezzi ad assemblare un viaggio da non
spezzare nell’ascolto. La storia racconta di un mondo distopico dove le
macchine governano. Le Nomacs, appunto il nome delle macchine, si sentono nella
prima traccia, poi in “The Houvering Sojourn”, in “Digital Discord”, in
“Machine Chatter” e in “Power Down”; ben 5 volte quindi ma è una sonorità che
piace ascoltare come fosse musica sperimentale, seppur per brevi inserti. Valore?
Io credo che sarà un album controverso, un lavoro su cui dire bene e meno bene.
Sempre di Dream Theater al 100% si tratta, indiscutibili nella loro tecnica e
nel loro Progressive-style. Ma le idee musicali sono davvero tutte personali?
Già “Dystopian Overture e “The Answer” fanno affiorare passaggi scontati e già
sentiti (per esempio in “Brother, can you hear me?”), troppo didascalici,
comuni a tanta acqua di storia passata sotto i ponti della musica. Questa
sensazione si ha più volte in varie zone del disco, e forse la causa di ciò sta
nel voler essere proprio raccontatori di storia;
Ecco
nel 2016 i Dream Teather essere ben vivi e vegeti col loro tredicesimo album
dal 1989; dopo tanti anni di carriera ancora profondono massimo impegno. E stavolta
l’impegno si tramuta in un doppio album. Più di due ore di musica, lungo
quindi, creato così per necessità tematica, dato che si tratta di un concept
scritto come una storia vera e propria, tipo musical. La struttura prevede
brani completi ma anche tanti piccoli pezzi ad assemblare un viaggio da non
spezzare nell’ascolto. La storia racconta di un mondo distopico dove le
macchine governano. Le Nomacs, appunto il nome delle macchine, si sentono nella
prima traccia, poi in “The Houvering Sojourn”, in “Digital Discord”, in
“Machine Chatter” e in “Power Down”; ben 5 volte quindi ma è una sonorità che
piace ascoltare come fosse musica sperimentale, seppur per brevi inserti. Valore?
Io credo che sarà un album controverso, un lavoro su cui dire bene e meno bene.
Sempre di Dream Theater al 100% si tratta, indiscutibili nella loro tecnica e
nel loro Progressive-style. Ma le idee musicali sono davvero tutte personali?
Già “Dystopian Overture e “The Answer” fanno affiorare passaggi scontati e già
sentiti (per esempio in “Brother, can you hear me?”), troppo didascalici,
comuni a tanta acqua di storia passata sotto i ponti della musica. Questa
sensazione si ha più volte in varie zone del disco, e forse la causa di ciò sta
nel voler essere proprio raccontatori di storia;  mettendosi infatti al servizio
di essa la musica diventa un po’ indirizzata e sottomessa al concept. “The Gift
of Music” non è male ma non appare di alto livello, anzi è nella media
standard, anche se buona; lo stile ricorda fortemente i Rush. “A BETTER LIFE”
diventa la prima traccia degna del meglio della band, molto morbida e sognante;
vicina ad essa,come apertura anche se più dinamica e virtuosistica, troviamo la
altrettanto bella “MOMENT OF BETRAYAL”. Bella anche la raffinata “A LIFE LEFT
BEHIND” che ricorda i suoni di Yes o Asia nella sua fresca ritmicità; ma
possiede anche una gustosissima linea melodica soft. Interessante “Lord
Nafaryus”, con la sua parte ad andamento di tango,  che però non è così originale, utilizzando
modalità teatrali non certo nuove (usate anche dai Nightwish). Teatralità mostrata
anche in “Three days”, che però appare migliore in quanto meno derivativa. Episodio
nettamente di valore è uno dei pezzi più duri: si tratta di “A NEW BEGINNING”,
anch’essa con tratti teatrali, in cui arriva una parte solistica degna dei
grandi D.Theater, e che presenta però anche un momento soffice cantato. Invece
la durezza mista a classico prog la troviamo in pezzi come “A Tempting Offer”. nParti
strumentali virtuose esistono così come gli assoli che li hanno sempre
contraddistinti, ma più che in passato, il cantato acquista maggiore spazio
nella percentuale registrata. La voce di
mettendosi infatti al servizio
di essa la musica diventa un po’ indirizzata e sottomessa al concept. “The Gift
of Music” non è male ma non appare di alto livello, anzi è nella media
standard, anche se buona; lo stile ricorda fortemente i Rush. “A BETTER LIFE”
diventa la prima traccia degna del meglio della band, molto morbida e sognante;
vicina ad essa,come apertura anche se più dinamica e virtuosistica, troviamo la
altrettanto bella “MOMENT OF BETRAYAL”. Bella anche la raffinata “A LIFE LEFT
BEHIND” che ricorda i suoni di Yes o Asia nella sua fresca ritmicità; ma
possiede anche una gustosissima linea melodica soft. Interessante “Lord
Nafaryus”, con la sua parte ad andamento di tango,  che però non è così originale, utilizzando
modalità teatrali non certo nuove (usate anche dai Nightwish). Teatralità mostrata
anche in “Three days”, che però appare migliore in quanto meno derivativa. Episodio
nettamente di valore è uno dei pezzi più duri: si tratta di “A NEW BEGINNING”,
anch’essa con tratti teatrali, in cui arriva una parte solistica degna dei
grandi D.Theater, e che presenta però anche un momento soffice cantato. Invece
la durezza mista a classico prog la troviamo in pezzi come “A Tempting Offer”. nParti
strumentali virtuose esistono così come gli assoli che li hanno sempre
contraddistinti, ma più che in passato, il cantato acquista maggiore spazio
nella percentuale registrata. La voce di  LaBrie scorre bellissima e luminosa,
davvero ottima prestazione. Alla chitarra si preferisce il pianoforte, sebbene
non si evitino accordi chitarristici duri, solo che c’è meno metal del solito
nonostante l’appeal di base sia sempre quello. Non grande virtuosismo
tastieristico, ma piace sentire l’Hammond in “The X Aspect”. L’album è promosso
perché comunque le emozioni vengono evocate, e perché alla fine l’insieme
funziona. Per me è uno degli album meno riusciti, comunque la magia arriva, e
la voglia di ascoltare non va via. Alfine è forse anche uno dei lavori più
orecchiabili e commerciali della band. In questo senso brani come “When your
Time Has come” (un po’ alla Yes) rappresentano davvero questa facile
ascoltabilità. E la ballata “Act of Faythe”, non solo è fruibilissima, ma
diventa quasi dysneiana rischiando di risultare pacchiana; fortuna che la band
consta di grande spirito artistico e sa truccarla bene, donandogli persino un
finale epico e fatato. Ballate più d’una, tutte decenti ma non sempre il
massimo della particolarità. Del tutto discutibile la dolcezza di  “Chosen” che darei ad un gruppo AoR che non ci
sfigurerebbe nell’usarla, non è brutta ma di tipo comune, e che salvo davvero
solo per l’assolo di chitarra. Per dirla meglio, chi può criticare “Losing
Faythe”? Chi può dire che è brutta? Però è nella scia quasi pop se non fosse
per l’enfasi che vi si riesce a dare. Come soft-song si apprezza meglio
l’inizio di ”RAVENSKILL” perché elicita una atmosfera più introspettiva, anche
se fa il verso a Freddy Mercury dei Queen, o forse si gode proprio per questo;
la seconda parte della song è più tonica ma senza velocizzarsi troppo, ampliando
enfasi e ariosità. Non male anche “Begin again”
e “Whisper on the Wind”. Una
ballata più densa invece è “Hymn Of A Thousand
Voices”, quasi celtica (folkeggiante per la presenza importante del
violino) che termina con pathos enfatico e che assume in sè parte di quella
verve tipica dei prog-rocker Kansas. C’è un motivo di base ripetuto in varie
sezioni del disco e anch’esso è soffice, ma la continuità si ha stilisticamente
senza fratture estetiche. Tra il primo e il secondo cd non vi sono grandi
differenze valoriali, ma il secondo appare più compatto e maggiormente incisivo
senza perdersi in troppe distrazioni sonore. Anche situazioni minori come
“Heaven’s Cove” e “The Path that divides” hanno un buon appeal tonico e
appaiono pregnanti. Opera Rock, che può essere considerata scintillante,
sebbene non l’apice compositivo dei Dream. Resta forte il senso dell’eleganza
che proviene dalla classe da sempre espressa e che qui come al solito non viene
lesinata. Sembra che il gruppo si sia divertito senza voler essere originali a
tutti costi; e sembra, stranamente allo stesso tempo, tutto spontaneo e tutto
studiato.
LaBrie scorre bellissima e luminosa,
davvero ottima prestazione. Alla chitarra si preferisce il pianoforte, sebbene
non si evitino accordi chitarristici duri, solo che c’è meno metal del solito
nonostante l’appeal di base sia sempre quello. Non grande virtuosismo
tastieristico, ma piace sentire l’Hammond in “The X Aspect”. L’album è promosso
perché comunque le emozioni vengono evocate, e perché alla fine l’insieme
funziona. Per me è uno degli album meno riusciti, comunque la magia arriva, e
la voglia di ascoltare non va via. Alfine è forse anche uno dei lavori più
orecchiabili e commerciali della band. In questo senso brani come “When your
Time Has come” (un po’ alla Yes) rappresentano davvero questa facile
ascoltabilità. E la ballata “Act of Faythe”, non solo è fruibilissima, ma
diventa quasi dysneiana rischiando di risultare pacchiana; fortuna che la band
consta di grande spirito artistico e sa truccarla bene, donandogli persino un
finale epico e fatato. Ballate più d’una, tutte decenti ma non sempre il
massimo della particolarità. Del tutto discutibile la dolcezza di  “Chosen” che darei ad un gruppo AoR che non ci
sfigurerebbe nell’usarla, non è brutta ma di tipo comune, e che salvo davvero
solo per l’assolo di chitarra. Per dirla meglio, chi può criticare “Losing
Faythe”? Chi può dire che è brutta? Però è nella scia quasi pop se non fosse
per l’enfasi che vi si riesce a dare. Come soft-song si apprezza meglio
l’inizio di ”RAVENSKILL” perché elicita una atmosfera più introspettiva, anche
se fa il verso a Freddy Mercury dei Queen, o forse si gode proprio per questo;
la seconda parte della song è più tonica ma senza velocizzarsi troppo, ampliando
enfasi e ariosità. Non male anche “Begin again”
e “Whisper on the Wind”. Una
ballata più densa invece è “Hymn Of A Thousand
Voices”, quasi celtica (folkeggiante per la presenza importante del
violino) che termina con pathos enfatico e che assume in sè parte di quella
verve tipica dei prog-rocker Kansas. C’è un motivo di base ripetuto in varie
sezioni del disco e anch’esso è soffice, ma la continuità si ha stilisticamente
senza fratture estetiche. Tra il primo e il secondo cd non vi sono grandi
differenze valoriali, ma il secondo appare più compatto e maggiormente incisivo
senza perdersi in troppe distrazioni sonore. Anche situazioni minori come
“Heaven’s Cove” e “The Path that divides” hanno un buon appeal tonico e
appaiono pregnanti. Opera Rock, che può essere considerata scintillante,
sebbene non l’apice compositivo dei Dream. Resta forte il senso dell’eleganza
che proviene dalla classe da sempre espressa e che qui come al solito non viene
lesinata. Sembra che il gruppo si sia divertito senza voler essere originali a
tutti costi; e sembra, stranamente allo stesso tempo, tutto spontaneo e tutto
studiato. la band esce vittoriosa anche su questo campo e la
bellezza del songwriting si coniuga alla sensibilità dell’arrangiamento; basti
sentire la densa “Bleed for you” e la dolce acustica  “Wake”. E certo molto merito in tal senso va
dato al cantante; ci si trova davvero di fronte ad una delle più capaci ugole
degli ultimi anni, vigorosa e intensa. L’album è pieno di acuti che più che
ricordare Gillan, ricordano Hughes; una notevole abilità esecutiva mista a
passione che non usa l’acuto solo come urlo di potenziamento del passaggio
sonoro, ma come fa Hughes, la tonalità acuta viene usata anche nella frase
melodica. In definitiva ascoltando questa opera si può lasciar perdere il termine
“vintage” che ci potrebbe pure stare, ma che non racconta appieno un disco il
quale non è una mera copia ma un bel modo di 
far rivivere uno stile. Ma anche se volessimo usarlo, è un termine che
non vuole assolutamente tacciare il suono della band di derivativo, cosa che
invece vale per i
la band esce vittoriosa anche su questo campo e la
bellezza del songwriting si coniuga alla sensibilità dell’arrangiamento; basti
sentire la densa “Bleed for you” e la dolce acustica  “Wake”. E certo molto merito in tal senso va
dato al cantante; ci si trova davvero di fronte ad una delle più capaci ugole
degli ultimi anni, vigorosa e intensa. L’album è pieno di acuti che più che
ricordare Gillan, ricordano Hughes; una notevole abilità esecutiva mista a
passione che non usa l’acuto solo come urlo di potenziamento del passaggio
sonoro, ma come fa Hughes, la tonalità acuta viene usata anche nella frase
melodica. In definitiva ascoltando questa opera si può lasciar perdere il termine
“vintage” che ci potrebbe pure stare, ma che non racconta appieno un disco il
quale non è una mera copia ma un bel modo di 
far rivivere uno stile. Ma anche se volessimo usarlo, è un termine che
non vuole assolutamente tacciare il suono della band di derivativo, cosa che
invece vale per i  Voodoo Circle già citati. La Gran Bretagna non è più la
nazione guida del Rock e del Metal, ma quando sforna un gruppo così, tira fuori
tutta la forza verace della sua tradizione, ricordando a tutti dove è nato il
tasto duro della musica. Ci sono gruppi inutili al posto dei quali è meglio
tirare fuori un vecchio vinile di band antica, mentre con gli Inglorious è come
se il passato fosse qui a continuare verso il futuro da dove aveva lasciato.
Voodoo Circle già citati. La Gran Bretagna non è più la
nazione guida del Rock e del Metal, ma quando sforna un gruppo così, tira fuori
tutta la forza verace della sua tradizione, ricordando a tutti dove è nato il
tasto duro della musica. Ci sono gruppi inutili al posto dei quali è meglio
tirare fuori un vecchio vinile di band antica, mentre con gli Inglorious è come
se il passato fosse qui a continuare verso il futuro da dove aveva lasciato. 

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