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LA FOTO DELLA SETTIMANA a cura di NICOLA D'ALESSIO
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627. “UNSUNG PROPHETS & DEAD MESSIAHS” (2018), album degli Orphaned Land (Israele) Century Media di Roberto Latini
Non ci sarebbero parole per la magia sprigionata da questo lavoro,
ma per la mia recensione dovrò spenderle. Pur di
derivazione metal, gli O.Land,
con questo disco, hanno alleggerito la loro vena dura pur mantenendola in varie
situazioni. Più che in passato, è aumentato il tasso folk orientaleggiante,
essendosi sempre più immedesimati con la loro cultura di origine mediorientale.
Quindi è diminuita la verve progressive in favore di quella etnica, però
rimanendo sostanzialmente Prog. Ciò che più conta è l’incrementato livello di
ispirazione artistica che reputo al top. Dal 1994 si contano sei full-lenght in
crescendo che oggi raccontano di un gruppo in perfetta forma nonostante il
cambio di chitarrista. In effetti gli assoli di Yossi Sassi erano un po’ più
belli e ficcanti, ma questo nuovo è
comunque ispirato. Le suite, cioè i brani
più lunghi, sono i momenti migliori e fanno pensare che le storie raccontate in
questo modo siano a loro più confacenti. Delle due la prima traccia “THE CAVE”
è sicuramente la più affascinante (e abbastanza metal), con percorsi differenti
ben collegati fra loro. Più occidentale l’altra “CHAINS FALL TO GRAVITY”, che
procede con una struttura più tradizionalmente prog di stampo europeo; complice
forse l’ospitata di Steve Hackett, mitico ex-Genesis, che suona un assolo nel
suo stile. Queste due canzoni rappresentano bene l’ariosità insita in tutto
l’album. Ancora più occidentale “ALL KNOWING EYE” che è qui l’apice prog
staccato da quello folk. Per il resto si preferisce tuffarsi nell’oriente
sonoro, sempre con l’attenzione di rimanere in una essenza internazionale. “IN
PROPAGANDA” si ha la creazione di un pathos altalenante tra malinconia e
lucentezza. “LIKE ORPHEUS” invece cerca una perfetta alchimia tra occidente e
oriente; diventa un ibrido perfetto che, anche per questo, si dimostra adatto
alla scelta di essere stato utilizzato per il video (uscito nel 2017 come
anticipazione). Si segnala in tal brano la presenza di Hansi Kursch, il
cantante-chitarrista dei teutonici epici Blind Guardian, il quale però non appare essenziale all’economia del
brano. Maggiormente incisiva la partecipazione dello svedese Tomas Lindberg
della band At The Gates che in “ONLY THE DEAD HAVE SEEN THE END OF WAR" infila un growl rude che ricorda un
pò quelli Death Metal presenti in vecchi lavori degli O.Land. Tracce davvero
minori non esistono essendo tutte funzionanti e funzionali. Possiamo forse
indicare “Take my Hand” come difettosa sulla voce narrante, ma riuscita per la
ritmica interessante e per la linea riffica pesante. Se davvero
vogliamo indicare la traccia meno esaltante lo potremmo fare con “We
do not resist”, che è comunque la più pesante del disco; ma questa
considerazione è relativa e imputabile solo al mio gusto personale. Pochissimo Growling, posto
dove ha più senso porlo. Il cantato è basato quasi tutto sulla voce pulita, la
quale è spesso similare a quella di Anderson dei Jethro Tull e ciò aumenta il
senso poetico da menestrello della musica di questi Israeliani ormai maturi
nella tecnica e nella sostanza. C’è anche molta coralità a cui non manca un
senso di maestosità che si integra con attimi sinfonici che non stravolgono mai
l’impianto, essendo inseriti con cura e abilità estetica. In effetti il loro
sinfonismo permette di ampliare la percezione emotiva di composizioni che
risultano sempre ben delimitate da confini sensati; cioè non c’è niente di più
e niente di meno di ciò che serve. Tutto, dall’inizio alla fine, dà la
sensazione che i musicisti partecipino col cuore al dipanarsi delle passioni
contenute in questa opera, emettendo una apparente intensa sincerità. L’essenza
etnica che emerge non limita le potenzialità formali e liriche in una visione
di fruibilità internazionale, e riesce a entrare nella pelle dell’ascoltatore
che ama frutti dai sapori diversi. Pregnante è la musica e pregnanti sono i
testi che vogliono mantenersi lontani dalla superficialità. Incapacità di
amare; chiusura culturale; divisione tra gli esseri umani; gli Orphaned Land
hanno sposato una causa indirizzata all’integrazione sociale e cantano sempre
di propensione all’unità nella differenza, spingendo l’ascoltatore a pensarsi
non chiuso nella propria realtà dato che spesso non è quella vera. Rispetto al
passato la band ha preferito trattare di problematiche più ampie, dal respiro
globale, e non rimanere ristretti al campo mediorientale, e infatti i profeti e
i messia del titolo, sono considerati personaggi al di fuori del mondo
bibilico. Riflessioni filosofiche quindi, ma, come dice lo stesso singer Farhi,
accompagnate da bellezza ed intrattenimento. Gli Orphaned Land sono una realtà
particolare nel panorama mondiale del rock, per la loro collocazione
geografico-nazionale, ma anche per come hanno deciso di porsi in tale panorama.
A volte la loro posizione pare prendere le distanze dalla cultura di origine
col rischio di rendersi qualunquista; evitano questa trappola usando con
sapienza agganci flosofico-storici anche ostici. Ad ogni modo tutto ciò li
caratterizza come combo originale e forte dal punto di vista della personalità.
Al di là dei testi, il tessuto musicale è un volo alto, oggi dal valore
indiscutibile.
Sky RobertAce Latini
1.
The
Cave
2.
We
do not resist
3.
In
Propaganda
4.
All
knowing Eye
5.
Yedidi
6.
Chains
fall to Gravity
7.
Like
Orpheus
8.
Poets
of prophetic Messianism
9.
Left
behind
10.
My
Brother’s Keeper
11.
Take
my Hand
12.
Only the Dead
have seen the End of War
13.
The Manifest –
Epilogue
Kobi Farhi – vocals / Chen Balbus – guitars / Uri Zelcha – bass / Matan Shmuely – drums
SKY ROBERTACE LATINI
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