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LA FOTO DELLA SETTIMANA a cura di NICOLA D'ALESSIO
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457. VIAGGIO NELLA MIA VITA-Appunti disordinati per un 'de profundis' (2014) di Roberto Rapaccini - Recensione di Sky Robertace Latini
Terza
opera che lascia momentaneamente da parte tematiche strettamente d’attualità,
per tessere un “testamento spirituale anticipato”, come lo chiama lui. Questo è
uno di quei libri che va attraversato senza cadere nella tentazione di dargli
un giudizio morale mentre lo si legge. Le considerazioni si possono fare in
seguito, le conclusioni si possono trarre dopo, riflettendoci; mentre invece se
si è in questa lettura è più sensato usare l’empatia. Un atteggiamento di
ascolto. Ora io, dopo aver lasciato decantare, provo a buttare giù appunto
quelle riflessioni che risuonano in me, come in ognuno, secondo il proprio
carattere, i propri valori e il proprio modo d’essere. L’ oggettività è una
mera illusione; tanto più che qui parlo di una persona che conosco e con cui
mantengo una certa umana relazione che, per quanto parziale, è piuttosto epidermica.
Già all’inizio, frasi come “La mia vita è innaturale…” o “…per me l’esistenza
si è fermata prima del previsto”, mi avrebbero acceso impulsi di ribattuta.
Invece, sempre all’inizio, un passo mi ha frenato, come a calmare i miei
bollenti spiriti critici, per darmi la possibilità così di inabissarmi nelle
sensazioni di Roberto Rapaccini. Il passo è stato questo, e fortuna che è stato
scritto presto, alla quarta pagina della premessa: “…in alcuni inaspettati frangenti
si è investiti di un misterioso calore e
si è inebriati di un’inattesa emozione…siamo spesso ostaggi di conturbanti
rimpianti”. Non so se i lettori sono accomunati dall’effetto che fanno queste
parole, le quali sottintendono grande passione per la vita, nonostante vissuta
dall’autore come “un distacco dalla vita”. Forse questa passione non può
attivarsi come vuole Rapaccini, pure esiste e lo si sente; è tarpata ma accesa,
come una brace sotto la cenere. Belle e poetiche sono le piccole descrizioni,
quelle che scrutano il tempo, guardano l’ambiente e i colori, respirano i
movimenti. Sarei tentato di nominarne alcune, ma è bene che le leggiate lì dove
sono poste, in un discorso continuativo che rende concreto lo spirito del
momento. Davvero c’è poesia; attenzione a non minimizzare questa presenza
corposa. L’ascolto musicale e concettuale di frasi sparse qua e là dà un quadro
esplicitamente artistico allo scritto. Naturalmente saltano fuori concetti e
parole che fanno parte della sua cultura e del suo vissuto anche lavorativo.
C’è un atteggiamento anche analitico-tecnico, che si esprime con le note a piè
di pagina. Ma nella prima metà prevale l’artista, che come costruiva l’arte
figurativa, senza timidezze costruisce quella letteraria. Dov’è che vorrei
controbattere? Su frasi tipo “…l’oggettiva indifferenza di quello che ho
intorno…” e “…tutto si ripete indipendente da me…”, per ricordargli che la
stessa sensazione spesso è percepita anche da chi non è caduto in patologie;
nella sua grandezza lo ha scritto benissimo Leopardi. Ma meglio che mi fermo
qui, perché Roberto questo lo sa bene, nulla devo dirgli. Preferisco continuare
a osservare il suo scritto con un certo pathos, senza che la tentazione di cui
sopra mi afferri troppo forte. Vivere
questa parte di lettura è stato come gustare emozioni altrui, ma anche un po’
soffrire, poiché gli eventi, pur con leggiadria raccontati, sono di severa
condizione. Roberto lo dice chiaramente, e ripete più volte cosa abbia
significato per lui e cosa significhi ancor oggi; ma il suo moto descrittivo è
di chi in qualche modo ha rielaborato, e sembra alleggerire il tema. Forse
conserva ancora quella “immatura e infantile incoscienza” di cui parla. In
verità questa rielaborazione sembra ancora in atto, non avendo superato la
sofferenza che porta, ma è concentrata a non essere un semplice ruminamento,
bensì essere la voglia di un altro orizzonte. Ad un certo punto arriva il
titolo “Il cielo sopra Berlino”, e da qui entrano in scena capitoli tecnici con
molte citazioni, dove il racconto di sé si trasforma in un luogo in cui cercare
il senso. Se da un lato questo momento fa capire cosa cerchi la persona,
dall’altro esprime una disillusione a mente fredda. Dal nono al diciotto la
trattazione si alza su livelli più “alti” tra filosofia, fede e arte. E’ una
continua altalena tra l’oggettivabile e il soggettivo (esplicitamente il
capitolo quindicesimo parla del libero arbitrio, con la dicotomia tra
“determinismo meccanicistico” e “contributo della volontà”) senza poterne
estrarre una conclusione se non lasciandosi carpire dalla fede. Ma colpisce
come proprio qui in mezzo alla analiticità spinta, sia inserito il capitolo “Un
concerto…” (undicesimo), di appena due paginette, che di colpo stempera la
seriosità in una dolcezza relazionale, l’amore sponsale, mediato da musica in
sede live, concerto goduto insieme. Non sono più le parole di Roberto, ma
quelle della moglie Cristina. Perché proprio qui? Perché non una collocazione
iniziale del libro, nella zona che pareva adibita al lato più sentimentale?
Forse va letta l’ultima frase del capitolo appena precedente: “L’opzione nei
confronti del bene invece può consistere solo nella docilità di farsi guidare”.
Una evidenziazione della scelta fra il bene e il male, e questa considerazione
del bene fa considerare ciò che è amore; ecco allora il capitolo successivo
disegnare con un ricordo, il bene dell’amore coniugale, che è molto più che
sentimentalismo: è una realtà concretamente relazionale. Il ricordo si prolunga
come presenza contemporanea di una storia di coppia che continua; non è passato
o futuro, ma presente. Sottolineatura data dalla poesia della Merini messa
all’inizio del capitolo, ma anche dalla frase finale dello stesso in cui Cristina
ancora indulge, il giorno dopo, nella stessa azione della sera prima, come se
il presente fosse un unico lungo momento ininterrotto che ingloba gli altri due
tempi. Come a dire che tutto il bene è questo che si costruisce tra due
persone, unico ambito in cui accettare il dolore. La ricchezza interiore
potenziata da una ricchezza esperienziale, hanno creato un Sig. Rapaccini di
tal fatta; un umbro che vive nella natura statica di Piediluco (TR), dopo esser
vissuto nel caos dinamico dei grandi eventi. Lui stesso dice di essere vissuto “in
tensione come una freccia sull’arco” e la sua pastosa esperienza (scoccata) gli
ha reso possibile scrivere questa breve opera che offre una completezza
integrata tra pathos e ragione. In conclusione non si tratta di un racconto ma
di una riflessione sulla vita in generale, anche se parte dalla sua; una voglia
di far parte di una realtà più grande, anche nella umile piccolezza. Se egli
non avesse avuto questo duro destino, io non lo avrei conosciuto, tanto meglio
per lui; purtroppo però è successo, tanto meglio per me. Non sono cinico, solo
contento di aver avuto questo privilegio.
SKY ROBERTACE LATINI
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