Riprendendo
l’argomento trattato nel post: L’invidia: uno dei motori del consumismo (post
247 – clikka qui) voglio porre
l’attenzione su questo sentimento, così diffuso ed inconfessabile, oggetto di
studio da parte di molte discipline. In questo post tratterò l’invidia secondo
i filosofi, gli psicologi ed i sociologi. Lascerò per un post futuro e a se
stante, l’argomento dell’invidia secondo gli
psicanalisti, poiché in psicanalisi l’invidia è trattata in modo molto
variegato e complesso.
L’invidia in filosofia
Sono numerosi i filosofi che, affrontando lo studio dell'uomo e dei
sentimenti umani, hanno dedicato riflessioni al tema dell'invidia. Dopo
Aristotele, che all'invidia oppone la giusta capacità di indignazione, dopo
sant'Agostino e san Tommaso, Francis Bacon parla di un'invidia
"pubblica": un'invidia anomala rispetto al sentimento che di solito
definiamo invidioso. A differenza di quest'ultimo, che proviene da una mancanza
ed è indirizzato dal basso verso l'alto, l'invidia cosiddetta "del
re" consiste nel timore che le distanze vengano colmate e procede
dall'alto verso il basso. È questa, secondo Bacon, l'invidia assoluta, quella
che produce una percezione distorta, secondo la quale, quando qualcun altro avanza,
l'invidioso ha la sensazione, pur trovandosi in notevole vantaggio, di retrocedere,
di perdere terreno. Altri filosofi hanno contrapposto l'invidia
all'ammirazione, come per esempio Cartesio, oppure al sentimento della
misericordia, "l'amore che gode del bene altrui e si rattrista invece
dell'altrui male", come scrive Spinoza nella sua Ethica. Anche
Schopenhauer vede nell'invidia una passione umana inevitabile, il cui opposto è
la compassione: è naturale, sostiene Schopenhauer, che l'uomo nel vedere il godimento
altrui provi amarezza; questo però non dovrebbe suscitare l'odio verso chi è
più fortunato. Ma proprio di ciò è fatta la vera invidia, definibile anche come
la situazione che esclude l'amicizia. Viceversa, poiché il bene degli amici è
anche il proprio, il rapporto di amicizia è quello all'interno del quale
l'invidia non può attecchire. Tra gli
illuministi si afferma l'idea che l'invidia sia uno dei tanti deprecabili vizi
che condizionano i rapporti sociali, vizi cui non sarebbe possibile opporsi
giacché essi sarebbero espressione della natura umana. D'altro canto l'invidia
affonda le sue radici in un sentimento più articolato e complesso: il
risentimento. Di quest'ultimo stato d'animo Nicola Abbagnano dà una definizione
che ne mette in evidenza le analogie con il sentimento invidioso: "è
l'odio impotente contro ciò che non si può essere o che non si può avere".
L'invidia in psicologia
Gli studiosi di psicologia non hanno mai dedicato una trattazione
sistematica e coerente al tema dell'invidia, pur interessandosi spesso di
questo affetto e, in primo luogo, dei legami che esso intrattiene con altri
sentimenti umani. Un rapporto privilegiato viene da sempre individuato tra
l'invidia e la gelosia, anche se molti autori concordano nel ritenere questi
due sentimenti essenzialmente diversi per quel che riguarda sia il tipo di
relazione tra i soggetti, sia l'oggetto cui si riferiscono: mentre, infatti,
l'invidia scaturisce dalla superiorità altrui, la gelosia prescinde da questo
aspetto. Altri sentimenti spesso legati all'invidia sono l'ambizione,
l'ammirazione, lo spirito competitivo, la superbia, l'emulazione. Alcuni autori hanno dedicato la loro attenzione anche all'invidiato - un ruolo
specifico e scarsamente trattato -, al suo rapporto con il sentimento di cui è
oggetto e alle possibilità che egli ha di mitigarlo. Il ruolo dell'invidia in
un contesto eminentemente sociale, quale quello del lavoro, è stato analizzato
con particolare interesse e acume da Elliott Jacques, uno dei maggiori studiosi
di psicologia del lavoro. La sua analisi, condotta in una prospettiva teorica
psicanalitica di marca kleiniana, lo conduce ad attribuire grande importanza a
questo sentimento, spesso molto incisivo nei rapporti di lavoro. Jacques
sostiene infatti che, all'interno di un'attività quale quella lavorativa,
fondamentale perché l'uomo possa raggiungere il proprio equilibrio psichico, il
sentimento innato dell'invidia incontra enormi occasioni di sviluppo. L'autore
propone un originale parallelismo tra il rapporto che il lavoratore intrattiene
con il datore di lavoro e il rapporto tra madre e figlio: in entrambe le
situazioni sono determinanti, tra l'altro, i fattori di dipendenza e il
possesso dell'oggetto desiderato. Considerando l'invidia un affetto primario e dunque innato,
Jacques ritiene inutile ogni tentativo di eliminare questo sentimento dal
contesto lavorativo attraverso la repressione sociale. L'ambiente non può far
altro che tenere sotto controllo fino a un certo punto l'intensità di questo
affetto; a tal fine deve essere raggiunto un equilibrio fra tre parametri
fondamentali: le capacità del singolo lavoratore, il lavoro e la retribuzione. Sempre
nell'ambito dell'indagine psicologica, il tema dell'invidia ripropone uno
spunto di riflessione destinato a essere chiamato in causa ogni volta che si
parli dei fenomeni emotivi, vale a dire il rapporto che intercorre tra le varie
aree dell'attività psichica: quella intellettuale, quella affettiva, quella
volitiva. È un problema antico, lasciato in eredità alla psicologia dalla
filosofia classica. Da sempre la psicologia ha studiato i fenomeni emotivi
anche nell'accezione funzionale e relazionale, cioè come legami che connettono
l'individuo alle altre persone, alle cose, agli eventi. L'esperienza emotiva,
infatti, è ciò che ci consente di apprendere il significato degli eventi ed è
ciò che seleziona e controlla gran parte delle informazioni con cui entriamo in
contatto. Anche l'interazione sociale è mediata dai sentimenti e dalle
emozioni, perciò sia la psicologia individuale sia quella sociale hanno
concentrato la loro attenzione sulla specificità delle singole emozioni, sulle
loro reciproche differenze e sul modo in cui esse interagiscono con i processi
intellettuali e con l'attività percettiva. In questa prospettiva 'interattiva'
l'invidia può quindi essere considerata il prodotto di un'operazione cognitiva
di confronto e valutazione, che parte dall'inserimento di un qualche evento
all'interno di uno schema mentale preciso. Il confronto che genera invidia
avverrà a partire da una valutazione soggettiva della realtà, non a partire
dalla realtà vera e propria: come ogni rappresentazione sociale, anche quella
dalla quale scaturisce l'invidia sorge da un nucleo di verità ma si arricchisce
man mano di una serie di elaborazioni personali compiute dal soggetto.
L'invidia risulta dunque essere un costrutto psicologico complesso, che non è
legittimo ridurre a un affetto del tutto spontaneo e irrazionale. Fondamentali
sono, in essa, aspetti cognitivi e valutativi relativi a contesti sociali e
relazionali sempre differenti.
L'invidia in sociologia
L'invidia è un fenomeno senza dubbio interpersonale, in quanto
coinvolge almeno due individui e può estendersi a un numero considerevole di
persone, dal piccolo gruppo alla massa. Visti all'interno del più ampio
contesto sociale i protagonisti del sentimento invidioso divengono a loro volta
entità sociali tra le quali intercorrono i rapporti di prossimità sociale
indispensabili al confronto e quindi al sorgere dell'invidia. Questo punto di
vista sembra contrassegnare il pensiero sociologico sull'invidia nel suo
insieme: secondo i sociologi il presupposto necessario alla nascita di un
sentimento di invidia è "un minimo di possibilità comuni" Non si
invidia chiunque, sostiene ad esempio il sociologo Francesco Alberoni, si
invidia soltanto colui con il quale si presuppone di avere una comunanza di
desideri e di capacità: l'invidia scatta tra fratelli, tra colleghi, tra i
componenti di uno stesso gruppo sociale. Altra precondizione perché ci sia
invidia è, sempre secondo Alberoni, la presenza di un pubblico, seppure
virtuale. Questo sentimento così profondamente intimo e inammissibile sembra
infatti fondato su una relazione diadica - quella che intercorre tra
l'invidioso e l'invidiato - mentre in realtà nasce alla presenza di un
pubblico: coloro di fronte ai quali l'invidioso avverte con strazio il proprio
scarso valore rispetto a colui che, invece, ha avuto successo. La sociologia
tende inoltre a collocare l'invidia in una situazione di reale competizione:
essa comparirebbe quando il soggetto si rende conto che la considerazione di
cui godeva è insidiata da qualcun altro, anche se questo altro non si pone in
competizione diretta. Lo studio più approfondito sull'invidia è stato effettuato
proprio da un sociologo, Helmut Schoeck
che ha preso in esame tutti gli aspetti culturali del problema. Il
tratto più innovativo dell'opera di Schoeck e del suo modo di procedere
nell'analisi del sentimento invidioso riguarda i motivi per i quali l'invidia
risulta una passione inconfessabile, socialmente stigmatizzata con grande
severità, spesso camuffata e sempre sottoposta a tentativi più o meno riusciti
di razionalizzazione. Al termine del suo percorso - nel quale, sulla base
dell'invidia, arriva a spiegare fenomeni come il conformismo e alcune forme di
conflitto - l'autore propone un'ipotesi di rivalutazione individuale e sociale
dell'invidia: collegandolo al risentimento, Schoeck individua nel sentimento
invidioso un elemento determinante nella formazione dei valori e della morale.
La tesi di fondo dell'autore è che questo sentimento è così profondamente
radicato nell'animo umano da rendere inutile qualunque strategia per
annullarlo: anche in presenza di un assoluto livellamento sociale una sia pur
minima diversità diventerebbe pretesto del sentimento invidioso. All'interno
della stessa sociologia non sono mancate tuttavia perplessità nei confronti
della proposta teorica di Schoeck. In particolare le critiche si sono
concentrate sul meccanismo secondo il quale risentimento e invidia avrebbero
giocato un ruolo nella genesi di alcune tendenze moralistiche quali
l'umanitarismo e la filantropia. CHIARA
PASSARELLA
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